nostop n.67 - FILT CGIL Lombardia

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Periodico FILT-CGIL Lombardia
Numero 67
HISTORIC GRAND PRIX
BERGAMO
FILT-CGIL
-
ottobre
2010
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Primo Piano
Se Davide sconfigge Golia
Tempo Presente
Dopo i tagli della manovra
economica, dove va il TPL?
Diritti, la stagione delle scelte
La funzione organizzativa, specchio
del rinnovamento della FILT
Il Bilancio sociale come strumento
di cambiamento
Trasporti in Valle D’Aosta
In Linea
18
Nella grande distribuzione
la dignità non è in vendita
La legalità è un impegno di tutti
Finalmente la stabilità
per i lavoratori di Sacbo
Spazio Aperto
23
Più spazi verdi e servizi per Milano
Sul futuro di Milano incombe un Piano
Urbanistico sbagliato e pericoloso
Il sistema aeroportuale dopo la crisi
La Tangenziale Est Esterna di Milano
DHL costruisce l’eco hub
Senza Frontiere
Istanbul 2010 - Di scena
la crisi economica
Sguardi e Traguardi
31
33
Un passo altrove
Femminista sarà lei
La comunicazione pubblica attenta
al genere - Il progetto MiComunico
Il respiro dell’anima, prima condizione
di libertà
Verso una società egualitaria?
Il buon governo di una città si misura
anche dagli spazi delle donne
Immagini
Bergamo Historic Grand Prix
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Il servizio fotografico è stato realizzato da
Franco Mammana
[email protected]
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Se Davide sconfigge Golia
Primo piano
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di Nino Cortorillo, Segretario Generale Filt-Cgil Lombardia
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Il 17 settembre sono stati firmati gli accordi che sanciscono e
regolano le condizioni del rientro in servizio dei 62 lavoratori della
cooperativa che lavora per Gs/Carrefour di Pieve Emanuele.
Non sappiamo se nei prossimi giorni accadranno altri fatti, non
prevedibili, che possano cambiare i contenuti degli accordi o renderli anche in parte non applicati.
Resta il dato straordinario di una vertenza che ha contrapposto 62
lavoratori provenienti da quattro continenti, che svolgono lavori
semplici, nascosti in uno dei tantissimi magazzini logistici che
ricoprono i nostri territori, privi di una storia e di una tradizione
sindacale ed estranei alle mitologie che riempiono, spesso in modo
stucchevole, i dibattiti politico-sindacali, a consorzi e cooperative
che agivano con appalti assegnati dal secondo gruppo mondiale
nel campo della distribuzione.
La Filt ha fatto propria una difesa di dignità delle persone, del
ruolo e della stessa esistenza del sindacato, del rispetto delle regole e della legge. Una difesa assoluta di principi con la volontà,
però, di renderli vivi attraverso l’esercizio della contrattazione ed
il loro riconoscimento da parte dei consorzi e delle cooperative.
Perché Davide ha sconfitto Golia?
Per la determinazione dei 62 lavoratori, l’impegno della Filt e
della Cgil ad ogni livello, la scelta di portare in Magistratura sia i
licenziamenti sia l’attività antisindacale (e veder riconosciute le
nostre ragioni).
Ma, soprattutto, per esser riusciti, oltretutto durante una crisi che
parla di migliaia di licenziamenti, a far diventare la vicenda un’ingiustizia nella quale molte altre persone potevano riconoscersi.
Questo è avvenuto attaccando direttamente Carrefour, mettendo
in contraddizione il suo ruolo, i suoi codici etici e quanto avveniva nei suoi impianti. Dicendo ai suoi clienti, i consumatori, che
l’esistenza di 62 persone valeva meno del costo di un sacchetto di
plastica della spesa.
E attaccando il sistema degli appalti che, nella filiera delle attività e nella filiera di consorzi e cooperative, drena utili e lascia al
lavoro la precarietà e la legge del più forte. Abbiamo aperto
un’attenzione ad un mondo che nasconde migliaia di lavoratori ed
un sistema di imprese, le cooperative, che andrebbe normato alla
luce di quello che sono, e non di quello che si pensa siano.
Lo abbiamo fatto studiando la vertenza, analizzando i soggetti in
campo e scegliendo una strategia. La svolta è stata l’invenzione
della spesa nei supermercati come acconto degli stipendi, le azioni pubbliche che tanto hanno coinvolto i media e hanno messo in
crisi le controparti. La decisione di rendere esplicite le nostre
ragioni contiene anche la consapevolezza che sono sostenibili. È
stata la scelta di cercare solidarietà, non come un fatto ideologico, ma concreto, vissuto. Verso persone che non avevano lo stipendio da mesi e non potevano fare la spesa, stretti nella condizione di dover vendere l’auto per comprare le medicine, di vedersi pignorata la casa, di avere le finanziarie alle porte di casa.
Abbiamo avuto modo di leggere la solidarietà calda e partecipata
di tanti, tra cui quella della Diocesi di Milano e del Cardinale
Tettamanzi. Che conosceva quanto avveniva, che sapeva cosa
erano le cooperative, che chiedeva della condizione dei lavoratori, che offriva il suo intervento. La politica è stata l’unica assente. È inutile che, anche a sinistra, si parli di lavoro, se non si comprende cosa vivono le persone. Così il lavoro diventa un’astrazione, un indice economico, un numero iscritto dentro altri numeri.
Dei tanti deputati o consiglieri, possibile che a nessuno, sottolineo
nessuno, sia venuto in mente di andare a parlare con questi lavoratori? Di informarsi per capire? Di chiedere cosa possiamo fare? Di
domandarsi quali proposte legislative potevano scaturire? La politica, così, viene meno al suo ruolo di comprensione dei fenomeni
sociali. C’è una contraddizione insanabile tra affermare che nell’agenda del paese il governo nasconde la crisi e le conseguenze
sul lavoro, ed essere poi distanti e senza conoscenza di quanto
avviene nel vivo del lavoro. Salvo, poi, chiedere perché i lavoratori non votano a sinistra.
Tutte le nostre iniziative hanno fanno parte di una scelta non
casuale né estemporanea, ma di un’analisi precisa che innova gli
strumenti classici dell’azione sindacale.
Una creatività della non violenza. Davide non può sconfiggere
Golia in campo aperto. Non può farlo in un corpo a corpo.
Molte delle sconfitte di questi anni sono dovute all’incapacità del
sindacato, ed anche della Cgil, di comprendere che, nel venir
meno dei riferimenti solidaristici naturali, o di una concezione di
classe, si doveva estendere fuori dalle mura delle fabbriche,
ormai delocalizzate e integrate dalla produzione di servizi, il consenso verso altri lavoratori/cittadini. Consenso che è uno scambio
di solidarietà tra diseguali che devono cercare nuove affinità.
Per la Filt è il nocciolo della nostra idea di confederalità, che non
attiene alla confederazione, ma ad un’idea che trasforma, e rilegge, il nostro agire dentro azioni e significati generali. Solo così si
comprende come sia stato possibile che la Filt, il sindacato dei
ferrovieri, dei tranvieri, del trasporto aereo, delle tante corporazioni, abbia messo al centro della sua politica, da tempo, la tutela dei lavoratori, italiani e nuovi italiani, che stanno nelle cooperative e nella filiera della produzione industriale e dei servizi.
La Filt ha l’obbligo di riflettere su quanto avvenuto, su cosa abbiamo imparato. Noi non vogliamo gestire tante Pieve Emanuele. E
non vogliamo che Davide diventi una mitologia.
Davide ora vuole e deve tornare al lavoro in una condizione di
serenità e normalità. Dimostrare che le esigenze di Carrefour e
delle cooperative sono conciliabili con un lavoro fatto con dignità
e nel rispetto dei contratti e delle leggi.
Il nostro impegno, il nostro sentire profondamente la brutalità
di quanto avveniva, era rivolto a permettere a queste persone
di pensare al proprio lavoro ed alle proprie esistenze con speranza e fiducia.
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Giuseppe Biesuz – A.D. Trenitalia-LeNORD
Andrea Boitani - Docente Università Cattolica di Milano
Elio Catania – Presidente ATM Milano
Giorgio Dahò - Portavoce del Coordinamento dei Comitati Pendolari Lombardi
Marco Piuri – A.D. Arriva Italia e Iberia, Direttore Generale Arriva Italia
Gian Battista Scarfone - Presidente ASSTRA Lombardia e Direttore ATB Bergamo
Nino Cortorillo – Segretario Generale Filt-Cgil Lombardia
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La lunga fase della trasformazione del
Trasporto Pubblico locale iniziata
negli anni ’90 ha consentito, pur tra
disomogeneità, contraddizioni e ritardi, di evitare la sua implosione attraverso l’individuazione di regole, risorse e obiettivi più chiari. Nonostante
ciò, il settore è da anni in uno stato di
equilibrio precario. La manovra economica del Governo, attraverso il taglio
delle risorse agli Enti Locali, scarica su
questi parte dell’onere della sostenibilità sociale del settore. Come pensa
che ciò possa ricadere sulla mobilità
collettiva nel nostro paese?
BIESUZ - Secondo i nostri calcoli, i tagli
al TPL per la sola Lombardia potranno
arrivare nel 2011 a 300 milioni di euro, di
cui 200 per il trasporto su gomma e i
restanti 100 su quello ferroviario. Con
queste cifre in ballo, si produrrebbero due
scenari alternativi: il primo, vedrebbe una
generale riduzione di circa un terzo – il
27% per l’esattezza - dei servizi prodotti
nel 2010, con minor ricavi di 50 milioni di
euro e una riduzione del personale di
esercizio fino ad un quarto. Per mantenere inalterato il livello del servizio e quello occupazionale – ed ecco il secondo scenario – c’è la necessità di intervenire al
rialzo sulle tariffe e di individuare meccanismi per attutire la riduzione della
domanda. Entrambi gli scenari determinano degli impatti molto rilevanti, soprattutto alla luce del fatto che la leva degli
aumenti delle tariffe sarebbe utilizzata
per mantenere il servizio ai livelli attuali
a copertura dei minori contributi pubblici.
Un intervento organico dovrebbe, invece,
prevedere un percorso di progressivo
autofinanziamento del settore, di cui la
leva tariffaria è sicuramente uno dei pilastri fondamentali, sia per sostenere il
sistema, sia per introdurre elementi di
differenziazione della tariffa affinché
questa, finalmente, possa introdurre fattori di socialità. Penso, ad esempio, a
politiche di sostegno sociale e relativi criteri di accesso agli sconti per fasce di reddito, quoziente familiare, specifiche categorie deboli.
BOITANI - Molte responsabilità hanno gli
Enti Locali, che avrebbero dovuto cercare di
accelerare il processo di trasformazione del
settore, che la liberalizzazione prevista con
i D.Lgs 492/97 e 400/99 voleva raggiungere.
Con più concorrenza tra imprese capaci di
operare sul mercato internazionale si sarebbero ridotti i costi e oggi si sarebbe stati in
grado di fronteggiare i tagli del Governo
senza i traumi che, invece, sono purtroppo
prevedibili. Non va dimenticato che il costo
per vettura-chilometro nel Tpl italiano è più
alto che nei paesi europei con cui amiamo confrontarci, mentre il ricavo è più
basso. Questa situazione non è colpa
del Governo, ma dei Comuni, delle
Province e delle Regioni, che hanno
sempre cercato di allontanare “l’amaro
calice” della concorrenza o - dove lo
hanno bevuto – avevano provveduto ad
annacquarlo preventivamente così
tanto da renderlo innocuo. Ora non
resta che accelerare il processo il più
possibile, per evitare che i tagli governativi abbiano un impatto devastante
sui cittadini. Non c’è altra strada che
aumentare i ricavi da traffico - rivedendo le tariffe verso l’alto - e soprattutto
ridurre i costi, facendo efficienza. Sulle
tariffe, mi permetto di rilevare l’irrazionalità di chi rifiuta ostinatamente
qualsiasi aumento nel Tpl e non fiata
sugli aumenti che automaticamente
sono applicati per l’energia elettrica e
il gas. Non è che quelli energetici siano
servizi con minore contenuto sociale dei
trasporti! E poi il citato D.Lgs. 492/97
prevedeva l’applicazione del price cap
anche alle tariffe del Tpl. Quale ente
locale ha rispettato la legge? Forse il
100% degli Enti Locali italiani è fuori
legge, sotto questo profilo…
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Dove va il TPL?
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Dopo i tagli della
manovra economica
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CATANIA - Il processo di sviluppo che c’è
stato nel settore è stato indubbiamente
positivo ma non è stato sistematico e ha
lasciato alcuni punti di debolezza: la frammentarietà del sistema, la sottocapitalizzazione delle società, la difficoltà della
programmazione degli investimenti sul
lungo periodo, l’incertezza dei contributi
pubblici.
È un peccato perché il trasporto pubblico
locale rappresenta sempre di più un elemento strategico per la qualità della vita –
soprattutto nelle grandi città – ma anche
per l’economia e la competitività del
Paese.
Nonostante questi limiti ancora presenti, è
stato dimostrato come una corretta gestione possa dare, anche in questo settore,
risultati positivi ed anticiclici rispetto alla
congiuntura economica nazionale ed internazionale. L’Atm, credo sia un buon esempio. Il piano di ammodernamento e razionalizzazione, impostato su trasparenza,
innovazione, impegno, condivisione dei
risultati con le forze del lavoro, ha visto lo
sforzo non solo dell’azienda ma anche dell’azionista – che è tornato ad investire
dopo molti anni – e del sindacato, che ha
sostenuto l’impostazione nuova. Ciò ha
portato ad un circuito virtuoso che ha visto
aumentare gli investimenti, l’occupazione, il servizio ed il riconoscimento al lavoro e alla professionalità.
Con questi presupposti è evidente che,
ancora di più in questo momento, bloccare questo sviluppo sarebbe un errore perché vorrebbe dire arrestare, o quantomeno rallentare, lo sviluppo di un settore
strategico proprio in un momento in cui
c’è maggior bisogno di puntare sulla mobilità collettiva e di creare poli che siano
motore e traino per la ripresa economica
del Paese.
DAHO’ - Gli Enti Locali, dopo anni di tagli
ai trasferimenti statali, oggi non hanno più
disponibilità di risorse residue e quindi
diviene inevitabile una diminuzione di servizi ai cittadini e, di conseguenza, di quelli di mobilità collettiva. Ciò provocherà,
inevitabilmente, un aumento dei costi
sociali dovuti all’aumento della congestione stradale, dell’inquinamento e dell’incidentalità. Inoltre, nei piccoli e medi comuni, che non possono permettersi di mantenere figure tecniche specialistiche, con i
tagli di risorse per studi e consulenze
viene, di fatto, impedita la possibilità di
effettuare studi trasportistici con la finalità di efficientare la rete del trasporto pubblico e migliorare la mobilità urbana.
PIURI - Come ha correttamente osservato,
il processo di riforma del TPL avviato negli
anni ’90 è segnato da numerose contraddizioni, ritardi, disomogeneità. In realtà, a
mio parere, bisogna constatare che la
riforma è in parte fallita ed in questa fase
si rischia addirittura un pesante riflusso.
Certo, il sistema nel suo complesso è divenuto più trasparente, la trasformazione
delle aziende speciali in società di capitali ha aiutato, i principi guida della legge
422 hanno identificato un percorso virtuoso di sviluppo. Ma questi principi guida non
si sono declinati in una chiara politica
industriale per il settore e la demagogia
politica che domina il TPL ha impedito in
questi 15 anni una chiara assunzione di
responsabilità da parte di tutti gli attori,
ciascuno per la propria competenza.
La manovra del governo, e per la verità più
ancora le dichiarazioni dei governi regionali di voler tagliare le risorse per il TPL –
sanità ed altre attività “istituzionali” chissà perché sono considerate intoccabili,
cioè “traduco io”, non interessate da spre-
chi e quindi da possibili efficientamenti –
investono il settore in una fase già di per
sé critica.
Intanto, io vorrei contestare il fatto che
non si distingua tra spese essenziali e non
essenziali, e si considerino risorse con
natura di corrispettivo per un servizio alla
stessa stregua di altre spese.
Come finirà? Come troppo spesso accade
nel nostro paese, purtroppo: solo in condizioni di emergenza si prendono finalmente
decisioni che un atteggiamento più
responsabile dei regolatori avrebbe dovuto
far assumere nel passato.
La determinazione dei servizi minimi
essenziali, la revisione delle reti, il concetto di costo standard, un percorso di
liberalizzazione finalizzato a far cessare le
rendite di posizione. Di questo stiamo parlando, cioè di quanto già chiaramente previsto nella legge 422. Solo che ora abbiamo – pare – sei mesi per realizzare quanto
avremmo dovuto fare negli ultimi 15 anni…
E la cosa paradossale è che più di uno
identifichi in una ulteriore “pubblicizzazione” del sistema – vedi il caso Piemonte
– la soluzione. Detto in altre parole “che ci
pensi la fiscalità generale”.
SCARFONE - Quando la condizione di
equilibrio precario si protrae per molto
tempo - come è stata la situazione del trasporto pubblico locale (e, più in generale
della mobilità) nel nostro Paese - si genera uno stato che definirei di immobilismo
(se non di regressione).
Una situazione di immobilismo che ha
dominato l’ultimo decennio e, fatta salva
qualche parziale esperienza e qualche
segnale positivo, ha via via depotenziato
obiettivi e strategie di riforma ed innovazione del settore che sembravano, alla
fine degli anni ‘90, attraversare orizzontalmente tutti i soggetti in gioco, aprendo
nei diversi campi della rappresentanza
(politica, imprese, sindacati, consumatori,
opinione pubblica) dialettiche contrapposizioni fra “conservatori” ed “innovatori”.
Hanno prevalso logiche e comportamenti
tendenzialmente “autoreferenziali”, con
una scarsa disponibilità al cambiamento. Il
processo di riforma avviato con la legge
422 non si è completato; solo in poche
realtà regionali si è proceduto all’affidamento dei servizi mediante gare. Non ha
preso forma un disegno strategico di riforma complessiva del settore che affrontasse non solo i temi della liberalizzazione ma
anche obiettivi e politiche di sostegno allo
sviluppo della mobilità collettiva, così
come era avvenuto e/o era in corso in altri
Paesi europei, sulla base dei contenuti dei
vari “libri verdi” e direttive emanate dalla
Comunità Europea. Non ha preso forma
alcuna politica industriale per il settore
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che favorisse almeno l’aggregazione delle
aziende, promuovendo la formazione di
gruppi di dimensioni adeguate nel contesto nazionale. Processi di integrazione e
aggregazione ostacolati da logiche di
sopravvivenza di aziende pubbliche (ex
municipalizzate e regionali) direttamente
collegate con Enti istituzionali a cui sono
state affidate funzioni di regolazione del
settore. In sintesi, il tema del Tpl (e più in
generale della mobilità) non è mai stato
seriamente nell’agenda delle riforme possibili di questo Paese (d’altra parte non è
la sola questione nazionale ad aver subito
la medesima sorte).
In questo contesto la manovra economica,
con la conseguente riduzione delle risorse,
rischia di essere la vera riforma del settore,
“responsabilizzando” in modo draconiano
regioni ed enti locali.
Nelle scorse settimane abbiamo messo a
punto alcune ipotesi di impatti possibili:
riduzione delle percorrenze chilometriche; considerevole riduzione del numero
dei passeggeri trasportati; consistenti
riduzioni del personale. Inoltre, si profila
una drastica caduta degli investimenti nel
settore in tutti i comparti industriali interessati (dalla produzione di autobus alle
tecnologie innovative). Infine, i livelli di
congestione delle nostre città sono
destinati ad aumentare con incremento dell’inquinamento da traffico e peggioramento della salute e
della qualità ambientale.
Improbabili rischiano di essere alcuni
obiettivi come quelli del pacchetto
clima-energia volto a conseguire gli
obiettivi che l’UE si è fissata per il
2020: ridurre del 20% le emissioni di
gas a effetto serra, portare al 20% il
risparmio energetico e aumentare al
20% il consumo di fonti rinnovabili.
Analogamente, di scarsa entità sarà
l’apporto del nostro Paese alla strategia lanciata dall’UITP (Unione
Internazionale dei Trasporti Pubblici)
finalizzata a raddoppiare la quota di
mercato dei trasporti pubblici a
livello mondiale entro il 2025.
CORTORILLO - Nessun paese in
Europa, pur con tagli più consistenti
al proprio bilancio, ha deciso di
tagliare il trasporto pubblico. Scelta
che in Europa non ha fatto né la
destra né la sinistra. La logica del
governo italiano è quella che lo ha
guidato in questi anni: prima i tagli
ad un settore, dopo una controriforma.
L’inverso di quanto avvenuto negli anni ’90,
quando si riformò il settore riducendo i
costi ed il declino. Si aggiunga che si tagliano risorse già insufficienti che fanno parte
di competenze e bilanci degli enti locali.
Una sorta di fuoco amico. Un giorno si teorizza l’intervento dello stato sulle banche e
sull’economia, un altro ci si dichiara liberisti e si prendono a modello società con salari, diritti e welfare non paragonabili. Si
accentua una dinamica recessiva che, anziché agire sui motori possibili di sviluppo
(investimenti sul parco mezzi e materiale
rotabile con ritorni anche per l’industria
nazionale), aumenterà l’uso del trasporto
privato e la dipendenza energetica dall’estero. Una sperimentazione priva di un
progetto organico, tanto da chiedersi se si
è voluto tagliare proprio il Tpl o si è pensato di scaricarne la sostenibilità sugli enti
locali. È evidente a tutti gli operatori del
settore che l’entità dei tagli produrrà una
crisi dell’intero sistema del trasporto pubblico e dell’intera filiera che va dall’erogazione del servizio, alla stessa produzione
industriale, coinvolgendo realtà produttive
più estese di quelle dei trasporti. Si taglia
la seconda voce dei bilanci regionali proprio
mentre si discute di federalismo, costi standard e nuovo equilibrio fiscale tra centro e
autonomie locali. La stessa Lega ha ingoiato i tagli preferendo puntare al federalismo
dell’avvenire. Ciò che dispiace è che altri
sindacati confederali siano stati silenziosi di
fronte a queste decisioni, come se fossero
essenziali e senza alternative.
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Il “Patto per il Tpl” è stato il tentativo in Lombardia di mettere a sistema
obiettivi, regole e risorse, dando elementi certi di stabilità e chiedendo a
tutti gli attori (istituzioni, imprese,
sindacati, associazioni dei consumatori e dei pendolari) di condividerne la
strategia e di svolgere un ruolo positivo. I tagli massimi che la Regione ha
previsto (314 Mln € nel 2011 e 296 nel
2012) non fanno venire meno i fondamenti del Patto, non solo nella certezza di quante risorse, ma di molti degli
obiettivi ad esse legate?
BIESUZ - No, perché Regione Lombardia,
attraverso le linee guida della riforma del
Tpl contenute nel Patto, aveva già avviato
un percorso di efficientamento del settore, anticipando quelli che sarebbero stati
gli impatti della manovra. Certo è che i
tagli cambiano lo scenario delle risorse e
implicano che tutti gli attori si adoperino
per avviare iniziative relative alle tariffe e
all’efficientamento di reti e servizi.
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BOITANI - È chiaro che la certezza delle
risorse è fondamentale per la gestione efficace di un sistema basato su contratti di
servizio e gare periodiche per l’affidamento. È altrettanto chiaro che, se la Regione
decide di rispondere ai tagli governativi
riducendo le risorse per il Tpl, sta compiendo una scelta allocativa precisa, che richiede un cambiamento complessivo della strategia politica per questo settore. Ma credo
che, con costi e ricavi francesi o tedeschi,
le ridotte risorse pubbliche sarebbero ancora sufficienti a garantire almeno lo stesso
livello di servizi che in Lombardia c’è stato
fino ad oggi nel trasporto urbano e uno
anche più elevato (sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo) nel trasporto extraurbano ferroviario.
T E M P O
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CATANIA - L’entità della ricaduta della
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manovra sul trasporto pubblico non è
ancora nota. In ogni caso, indipendentemente dall’ammontare dei tagli, il Patto
non è indebolito nei suoi presupposti ma
nel livello e nella qualità degli obiettivi
che si era posto. Proprio in questo frangente il Patto per il Tpl diventa, invece,
uno strumento fondamentale per potere
individuare, con precisione chirurgica, i
punti dove far cadere i tagli per non danneggiare lo sviluppo intrapreso e per dare,
nel modo migliore, una risposta coerente
alle richieste di mobilità delle persone.
DAHO’ - In assenza di
una ferma volontà del
Governo regionale di salvaguardare in ogni modo
il livello di domanda servito dal trasporto pubblico, l’ovvia conseguenza
(che allo stato attuale
risulta anche l’unica ipotesi allo studio) è una
doppia e pesante manovra, sia tariffaria sia di
taglio ai servizi, mentre
il Patto prevede che gli
adeguamenti tariffari
siano legati ad incrementi della qualità e
della quantità dei servizi. Considerato che qualità e quantità non sono
variabili tra loro indipendenti, viene quindi a
mancare quell’obiettivo
sostanziale di “miglioramento della qualità dei
servizi” attorno al quale
è stato costruito l’intero
Patto. Inoltre, tra gli
obiettivi fondamentali
del Patto vi è quello del
trasferimento modale
dal mezzo privato al
mezzo pubblico, il cui
raggiungimento diventerà
estremamente arduo. Non
solo i risultati attesi dalla
Riforma del Tpl, fondata sul
Patto, consistenti nell’incremento della domanda del
30% nell’area suburbana e
del 20% a livello regionale,
diventano utopici, ma si
verificherà il contrario. Da
non sottovalutare, infine,
che risulta anche difficile
scongiurare quel “pericolo
di una crisi strutturale del
sistema” su cui si è fondato
il Patto e dovuto al crescente squilibrio tra costi e ricavi stimato per i prossimi anni
dalla Regione indipendentemente da questa manovra.
Complessivamente e, ripeto,
in assenza di una ferma
volontà di mantenere il
livello della domanda servita
a partire dalla conferma
della priorità del trasporto
pubblico sul trasporto privato e su cui fondare il reperimento di nuove risorse,
viene di fatto a decadere
l’intera incastellatura su cui
si fonda il Patto.
PIURI - Abbiamo sostenuto convintamente
il “Patto per il Tpl”, perché crediamo
che il primo obiettivo di chi “fa impresa”
sia quello di avere regole certe e chiare
per il futuro.
Per la verità, la versione del “patto”
approvata portava già i segni di un compromesso al ribasso rispetto agli intendimenti iniziali. E la Regione, diciamo così,
non ha brillato per quanto riguarda il
rispetto degli impegni. Certo che ora, se
l’entità dei tagli per il settore è quella da
Lei citata, il problema non è il venir meno
dei fondamenti del “patto”, ma il venir
meno del servizio e quindi del settore del
Tpl nel suo insieme.
Nessun settore è in condizione di sopportare un taglio del 30% dei corrispettivi
senza doversi pesantemente ristrutturare
con inevitabili, significative conseguenze
di natura sociale. Con tagli di 300 milioni
di euro per anno, il “patto” non esiste più.
La domanda è se esista ancora il settore.
SCARFONE - Un impatto nei termini mas-
simi come quello paventato nelle scorse
settimane per la nostra Regione frantuma
gli sforzi fin qui compiuti di definire un
quadro di cambiamento e di innovazione
(risorse e regole) e che aveva trovato nei
contenuti del “Patto” un primo significativo risultato condiviso da tutti gli attori.
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Le iniziative messe in atto sino ad oggi
dalla Regione Lombardia, dagli Enti locali e
dalle aziende di trasporto pubblico del territorio per migliorare l’offerta di trasporto
e la qualità del servizio, sarebbero così
mortificate da un’insostenibile riduzione
dei servizi. Un passo indietro che ci allontana dal panorama europeo di sviluppo
della mobilità collettiva al quale il nostro
sistema regionale ha tentato di agganciarsi
in questi anni. Anche le ipotesi messe a
punto nei mesi scorsi di riforma e di innovazione degli strumenti di “governance” di
questo fondamentale settore, con un
ampio consenso fra Regione, Comuni e
Province, Organizzazioni delle imprese
pubbliche e private, Sindacati e rappresentanze dei Consumatori, rischiano di essere
travolte dal taglio delle risorse. Cambia
radicalmente l’agenda per tutti i soggetti:
non più ipotesi di miglioramento quantitativo e qualitativo dei servizi, di innovazione delle tecnologie, di integrazione ferrogomma sulla base di bacini di più ampia
dimensione, di evoluzione del sistema
delle imprese in progetti/processi di integrazione, ma rischio di contenziosi legali in
presenza di contratti di servizio sottoscritti nel tempo che non prevedono possibilità
di riduzioni radicali delle risorse per i corrispettivi, peggioramento della qualità dei
servizi, esuberi strutturali in un settore che
non dispone di ammortizzatori sociali, tensioni fra cittadini ed Enti Locali, tra imprese e organizzazioni sindacali in una preoccupante spirale negativa. In altri termini, il
settore sembra destinato ad avviarsi ad
una fase di crisi nella quale, pur con il
senso di responsabilità che caratterizza
tutti gli attori coinvolti, non si intravede
alcuna “opportunità” ma uno scenario
decisamente peggiore di quello degli ultimi
anni, che pur aveva registrato segni di
miglioramento e di “europeizzazione”. Non
solo i contenuti, gli obiettivi del “Patto”
rischiano di essere frantumati dagli effetti
concreti derivanti dalla riduzione delle
risorse, ma anche quello che potremmo
definire lo “spirito” del patto rischia di
sciogliersi come neve al sole.
CORTORILLO - La Lombardia, sin dagli
anni ’90, è stata una delle regioni che più
ha tentato di tenere insieme risorse, regole del mercato, programmazione e servizio. Non sempre abbiamo condiviso le scelte compiute, ma va riconosciuto che il
Patto per il Tpl del 2008 è stato un tentativo importante di governo del settore
tenendo in equilibrio interessi diversi.
Quel Patto era un progetto per il futuro.
Un trasporto finanziato per circa il 60% da
risorse pubbliche può prevedere un suo
futuro esclusivamente se queste sono stabili e certe nel lungo periodo. Oggi siamo
in piena emergenza, in larga parte ancora
sottovalutata dalla politica. Tanto che, ad
oggi, risultano non chiariti gli importi dei
tagli nel 2011 e nel 2012. Non sarà possibile proseguire nel processo di riforma derivato dal Patto o porsi obiettivi di qualità.
Si tratterà, al contrario, di riscrivere gli
obiettivi e le regole del Patto. Solo dopo
saranno chiare le nuove condizioni.
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Ad oggi non si conoscono le esatte
ricadute, in valore assoluto e nella
ripartizione tra ferro e gomma e tra
urbano ed extraurbano, dei tagli in
Lombardia. Questo in presenza di
Contratti di Servizio già definiti e/o
gare per l’affidamento dei servizi già
previste. Esiste un livello di sostenibilità economica e sociale oltre la
quale il sistema rischia o l’implosione
o una trasformazione non governata?
BIESUZ - Regione Lombardia, in particolare da questa legislatura, ha premuto sull’acceleratore della riforma del sistema,
prima di questa manovra. Quello che ci si
attende da questa nuova impostazione di
riforma è che si possano raccordare maggiormente le reti di trasporto, razionalizzare i sistemi di offerta, rafforzare la cooperazione tra gli attori, bilanciare maggiormente le fonti di ricavo e ottimizzare
la contribuzione pubblica. Da 22 bacini di
traffico si passerà a 7 bacini. Saranno
superate in questo modo le antiche distinzioni tra bacini urbani ed extraurbani, si
eviteranno le sovrapposizioni tra le reti e
sarà possibile arrivare ad un’integrazione
tra le diverse modalità di trasporto e dei
sistemi tariffari, con la rete ferroviaria
gestita a livello regionale a fare da dorsale del sistema. Il nostro settore deve evolvere verso l’autonomia economica, in cui
il peso del contributo pubblico si riduca
rispetto a quello dei ricavi da traffico. Solo
in questo modo potremo essere in grado di
raggiungere gli obiettivi di qualità, integrazione, razionalizzazione, informazione
e comunicazione dichiarati nel Patto.
BOITANI - Certo, se si considerano assolutamente rigidi i costi e i ricavi, la soglia
dell’implosione si raggiunge molto presto!
Ma continuo a ritenere che sarebbe un
grave errore considerare costi e ricavi
come assolutamente immodificabili. Il
problema è il profilo temporale che la
riduzione dei costi e l’aumento dei ricavi
può ragionevolmente assumere. Su questo
bisogna che lavorino insieme le aziende, i
sindacati, la politica regionale e locale: un
bel tema su cui fare un patto.
CATANIA - Il rischio esiste ed è forte. La
sostenibilità di questi tagli rappresenta un
elemento chiave, perché molte imprese
sono già al limite di questa soglia. Ma c’è
anche il rischio che tagli mal gestiti si traducano, poi, attraverso un percorso non
sempre trasparente, in una riduzione della
qualità del servizio offerto ai cittadini.
Credo, quindi, che la soluzione da ricercare sia quella di aumentare l’efficienza del
sistema, di ragionare in un’ottica di mobilità integrata a livello regionale che tenga
conto delle reali esigenze di mobilità e che
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possa trarre beneficio dalle sinergie, eliminare gli sprechi e concentrare le risorse
dove sono meglio gestite.
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DAHO’ - Come abbiamo visto, è impensabile ipotizzare una manovra che agisca
solo sulle tariffe sperando di poter mantenere invariato il livello di servizio, semplicemente perché avremmo in giro molti
mezzi semivuoti per la conseguente diminuzione di utenza, e quindi è giocoforza
anche effettuare dei tagli ai servizi, i quali
innescherebbero un’ulteriore contrazione
dell’utenza. Nelle Aziende, in cui molti
costi sono incomprimibili, sarebbe ancora
più difficile far quadrare i bilanci, e già
oggi ve ne sono alcune, anche importanti,
il cui equilibrio economico è già estremamente precario e che, soccombendo,
farebbero in breve venire a mancare i servizi essenziali di trasporto pubblico in
ampie porzioni di territorio e di città.
Tutto ciò fa supporre che il livello di sostenibilità, se esiste, sia estremamente ridotto, e non certo pari all’entità dei tagli.
Ritengo pertanto assolutamente necessario trovare delle risorse che non derivino
dai normali meccanismi di contribuzione
del Tpl, e ciò può avvenire solamente considerando il sistema della mobilità nel suo
complesso, e non limitatamente al trasporto pubblico.
PIURI - Generalmente in questi casi non
aiuta. In termini generali, 300 milioni per
anno di riduzione dei corrispettivi significa
dichiarare che non esiste più il servizio di
TPL. Almeno un servizio così come regioni
ed enti locali fino a oggi hanno dichiarato
dovesse essere: integrato, multimodale,
con innovazioni tecnologiche significative,
con orari cadenzati garantendo connessioni
e modalità per tutte le aree del territorio.
Sempre in modo piuttosto grossolano, e
discutibile, si può azzardare che un taglio
del 5, massimo del 10%, può essere gestito
cercando di limitare gli impatti sul servizio
e sui lavoratori.
Ma anche in questo caso occorre essere
selettivi: il ferro non è uguale alla gomma,
per esempio. Costo di produzione dei servizi ferroviari e la loro strutturale rigidità
impongono una selezione responsabile dei
servizi essenziali.
Così come il trasporto urbano è una cosa e
l’extraurbano un’altra. Esemplificando: un
cambio di frequenza da 3 minuti a 6 nell’urbano non modifica sostanzialmente il
servizio. Una corsa extraurbana con
cadenza oraria se portata a 2 ore, di fatto,
fa scomparire il servizio.
In sintesi: occorre pensare ed agire in termini selettivi, ripensando le reti ma anche
un taglio del 5-10% non potrà non avere un
impatto sui lavoratori. Il Tpl è un servizio
tarato sulle punte, se non si toccano queste i costi delle aziende rimangono immutati anche a fronte di tagli di servizi. Ed il
costo più significativo è quello del lavoro,
dal 50 al 60% dei costi totali.
SCARFONE - Individuare una soglia di
sostenibilità economica e sociale della
riduzione di risorse è alquanto problematico in un contesto nel quale era stata evidenziata, proprio nell’ambito del “Patto”
e prima della manovra economica, una
inadeguata disponibilità di risorse.
Ad oggi non è nota, dopo il primo incontro
del 30 luglio, la misura effettiva della
riduzione delle risorse e quali provvedimenti la Regione intenda assumere, in
sede di politica di bilancio, per contenere
i presunti effetti della riduzione.
Si profila un ancor generico mix di azioni
(oggetto di primi confronti con la
Regione): tagli non “lineari”; incrementi
delle tariffe e degli introiti tariffari; provvedimenti di competenza degli Enti Locali
in materia di viabilità e mobilità; efficientamento delle imprese e maggior produttività del fattore lavoro.
Per non incorrere in frettolose semplificazioni, è necessario procedere con adeguate
analisi tecniche su tre nodi fondamentali:
쮿 “livelli di servizio” ovvero quali sono i servizi “minimi” sostenibili nei vari contesti
in relazione ad alcuni parametri essenziali socio-demografici e di mobilità;
쮿 “costi standard” ovvero la necessità di
(ri) definire i costi standard non solo per
modi (ferroviario, metro, tram, bus) ma
anche per tipologia di servizio (urbanosuburbano, extraurbano);
쮿 la “integrazione” (modale, di servizi,
tariffaria) che, se affrontata in modo
corretto, può anticipare alcuni obiettivi
individuati dal “Patto” ed evitare il
rischio di sostenere e finanziare servizi
a scarsa efficienza e/o a ridotta efficacia in nome di una presunta esigenza di
“non linearità” dei tagli.
Analogamente è indispensabile individuare
le modalità ed i percorsi sulla base dei
quali sia possibile azionare le diverse leve
della razionalizzazione in uno scenario
dove buona parte dei contratti di servizio
attivati nella nostra regione, nella prima
parte del decennio, sono in esaurimento
sulla base di ambiti di bacino ritenuti
eccessivamente frammentati e che, rebus
sic stantibus, rischiano di essere i medesimi anche dal 2011 in avanti e con competenze “separate” fra Comuni capoluoghi e
Amministrazioni Provinciali.
CORTORILLO - Se le cifre dei tagli saranno, anche in parte, confermate, sarà l’implosione del sistema. Ipotizzare, infatti,
che si possa risparmiare il 25% dando lo
stesso servizio significa che per anni
abbiamo tutti, ma proprio tutti, bluffato.
Il Tpl aveva trovato un suo equilibrio complessivo nel corso degli ultimi 20 anni, pur
se insoddisfacente sul versante della qualità e dell’estensione dei servizi. Una riduzione drastica significherà non solo far saltare i bilanci aziendali, ma far venir meno
la stessa natura di pubblico servizio. Le
conseguenze agiranno su imprese a capitale pubblico e privato senza distinzioni.
Quale scenario di mercato e di gare sarà
possibile? Cosa avverrà dei Contratti di
Servizio già sottoscritti? Cosa avverrà del
progetto TLN che, a fine ottobre, dovrebbe far cessare i due rami d’azienda e far
nascere un’unica realtà aziendale e lavorativa? Si tratta di criticità senza risposta
che rischiano di aggravare la situazione.
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Quantità e qualità del servizio, investimenti, tariffe, lavoro, ripartizione
tra ferro e gomma: queste sono le leve
su cui la Regione sembra voler agire
per compensare i tagli della manovra.
Come ritiene che possa determinarsi
una trattativa tra impresa e organizzazione sindacale e tra impresa e
utenti se le decisioni non lasceranno
altra scelta che il conflitto?
BIESUZ - Come già dimostrato con il Patto
per il Tpl, è il coinvolgimento dei diversi
attori che rende possibile recepire le diverse problematiche del settore, secondo differenti punti di vista, e adottare soluzioni condivise che integrino le esigenze dei soggetti.
I tagli della manovra dovranno essere considerati quali opportunità di discussione tra le
imprese e le organizzazioni sindacali per
rimettere in gioco il CCNL degli autoferrotranvieri e delle Attività Ferroviarie, ma
anche gli accordi integrativi aziendali e i
regolamenti interni. Tale confronto, da
affrontarsi attraverso l’apertura di un tavolo, dovrà essere finalizzato a ricercare una
soluzione condivisa tra imprese e organizzazioni sindacali per far fronte ai tagli della
manovra attraverso azioni che permettano
alle imprese di ridurre i propri costi, ma che
garantiscano la tutela dei lavoratori. Inoltre,
la manovra e le relative azioni di riforma del
sistema di Tpl dovranno essere l’occasione
per ripensare il settore attraverso una stretta collaborazione con gli utenti al fine di
recepirne i desiderata. È necessario, infatti,
che la configurazione del settore sia sempre
più orientata alle esigenze dei clienti. Le
aziende di trasporto devono fare un salto
culturale sviluppando le aree commerciale,
marketing, informazione e comunicazione
per evolvere verso un servizio di mercato.
BOITANI - Tra le leve menzionate non compare la concorrenza. Un errore grave se la
Regione non vorrà utilizzarla, un errore
ancora più grave se il sindacato vorrà ostacolarla o non vorrà sollecitarla. Se i principali attori del settore sceglieranno il conflitto, sarà un disastro. Ma un’espressione
come “le decisioni non lasceranno altra
scelta che il conflitto” non mi piace. Ha il
sapore dell’inevitabilità e della fuga dalle
responsabilità. C’è un vincolo coercitivo
esterno, costituito dalla politica di bilancio
del Governo (ci piaccia o non ci piaccia),
cui bisogna adattarsi nel modo migliore per
il maggior numero. E il maggior numero
sono i cittadini utenti dei servizi. Se il conflitto dovesse ancora una volta danneggiare gli utenti, politica, aziende e sindacati
meriterebbero veramente la rottamazione.
CATANIA - Sarebbe un grave errore se
l’unica via possibile per affrontare questa
situazione fosse il conflitto. Proprio in
questo momento è importante, invece,
riunirsi intorno ad un tavolo per trovare,
assieme a tutti gli attori coinvolti, la soluzione migliore per utilizzare le risorse
disponibili. Per farlo veramente, però,
bisogna accantonare i vecchi schemi e
affrontare questo frangente con un nuovo
spirito che metta al primo posto gli obiettivi comuni, il lavoro, la condivisione dei
risultati, il servizio verso i cittadini.
DAHO’ - Il trasporto pubblico non è un
sistema chiuso e indipendente, ma fa parte
del sistema complessivo della mobilità e
quest’ultima del sistema sociale e politico
come diritto alla mobilità sancito dalla
Costituzione. Pertanto, la prima condizione per aprire delle trattative è che siano
riconosciuti questi legami fondamentali.
Ciò significa non solo che esiste un rapporto tra trasporto pubblico e trasporto privato che rende possibili travasi di risorse dall’uno all’altro, ma che il trasporto pubblico
va salvaguardato per garantire la mobilità
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tema conflitto/trattativa ritengo che lo
scenario dei prossimi mesi sarà dominato,
almeno nella prima fase, dal prevalere di
uno stato di entropia fra i vari soggetti
portatori di interessi il cui esito, ad oggi,
non è immaginabile.
Per indole mi considero ottimista, ma
all’orizzonte prevalgono ad oggi segnali
negativi e di forte preoccupazione.
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nel suo complesso e indipendentemente
dalla disponibilità del mezzo privato.
Occorre, inoltre, che la Regione dica chiaramente se ha ancora intenzione di puntare sul trasporto pubblico, tenendo presente che ogni proposito di sviluppo perderebbe totalmente di credibilità in presenza di
forti aumenti tariffari, diminuzione dei
servizi e diminuzione della domanda. Una
terza condizione consiste nell’operare una
profonda revisione qualitativa e quantitativa della politica degli investimenti, anche
alla luce dei troppi sprechi del passato, o
addirittura in atto (EXPO, TAV). Occorre
evitare di fare ulteriori sprechi verificando
l’effettiva necessità e priorità degli investimenti mediante un Piano della Mobilità
regionale che, a partire dall’analisi delle
effettive necessità, proponga degli obiettivi per il sistema della mobilità e delle strategie per raggiungerli, attraverso un processo decisionale trasparente e verificabile. Quarto, occorre una seria revisione
delle normative che regolano il sistema e
la gestione della circolazione ferroviaria e
stradale, oggi imposte a livello ministeriale in base a logiche imperscrutabili od inattuali, che finiscono per appesantire i costi
di gestione. Quinto, occorre che sia data
trasparenza sui dati di bilancio delle aziende pubbliche, sugli introiti tariffari, sui
dati di esercizio, sulla frequentazione.
Sesto, occorre introdurre regole di vera
concorrenza nel settore, assegnando i servizi alle Aziende che dimostrano di sapere
gestire il servizio con maggiore efficienza.
Queste sono le condizioni che, secondo
me, sono necessarie non solo per aprire un
confronto serio e costruttivo, ma anche
per fare sì che la crisi incombente possa
trasformarsi in un’imperdibile occasione di
rinnovamento e di rilancio dell’intero settore del trasporto pubblico.
PIURI - L’entità dei tagli è la variabile
decisiva per capire se ci possono essere
reali margini di negoziazione in grado di
portare ad un accordo condiviso. In caso
contrario credo, purtroppo, che non
potranno che prevalere strategie conflittuali guidate dal principio del “tutti contro
tutti”.
Quello che è certo è che le imprese non
intendono interpretare il ruolo del terminale debole della catena chiamato a farsi
carico in modo irragionevole di responsabilità e scelte di altri.
Sarà considerata, innanzitutto, ogni possibile azione legale a tutela dei propri interessi, attuazione del “Patto Tpl” incluso.
Dovranno necessariamente essere attivati
piani di ristrutturazione adeguati e coerenti con il nuovo quadro.
Forse molti di quelli che fino ad oggi hanno
rilasciato dichiarazioni non si rendono
conto degli impatti e delle conseguenze di
quanto dicono.
Ma noi confidiamo sempre sulla ragionevolezza ed il buon senso. A me hanno insegnato che, al di là di teorie e ideologie, la
realtà s’impone sempre. Avverrà così
anche questa volta.
SCARFONE - È necessario uscire da
approcci semplificatori, come in parte è
emerso nell’incontro di luglio in Regione,
dove sono state indicate generiche azioni
per “compensare” la manovra.
Il complesso delle azioni attivabili dipenderà probabilmente dalla misura dei tagli
e, nel contempo, dalla capacità dei vari
soggetti di contribuire positivamente ad
individuare un difficilissimo percorso per
far fronte alla nuova situazione. Come
Asstra Lombardia stiamo preparando un
documento che contiamo di presentare nei
prossimi giorni. Per quanto riguarda il
CORTORILLO - L’entità dei tagli non consentirà una loro sostenibilità attraverso il
solo autofinanziamento. Le economie
richieste sono, infatti, strutturali e non
una tantum. Questo significa che, se si
dovesse agire su livelli di qualità ed estensione del servizio (riducendo maggiormente i servizi su gomma e quelli urbani, nelle
fasce serali e nei giorni festivi), muterebbe la natura del trasporto pubblico. Per la
stessa ragione, un incremento elevato
delle tariffe farebbe diventare il trasporto
pubblico non più conveniente, spostando
le criticità sulle strade e sulla sostenibilità
ambientale. Un minor servizio porterebbe
a una drastica riduzione di occupazione, al
momento concentrata nel personale viaggiante. Un settore privo di ammortizzatori
sociali sarebbe incapace di gestire una
riorganizzazione del servizio così pesante.
Molto deriverà da quanto la Regione e gli
enti locali decideranno nei prossimi mesi.
Un settore lasciato da solo a gestire le
conseguenze irresponsabili dei tagli non
ha alcuna chance di superare la prova.
Si tratterà di ridefinire ruolo ed estensione del servizio, risorse, regole, qualità del
mercato e delle imprese, tutela del servizio e del lavoro. Si tratterà, in primis da
quella parte della politica che ogni giorno
grida all’autonomia da Roma, di dire quali
risorse servono e dove recuperarle.
Sapendo che non sono nascoste nel Tpl,
ma vanno trovate nei Bilanci e nell’economia della regione. Può l’economia, l’articolazione produttiva e sociale della
Lombardia, reggere un trasporto pubblico
destinato a declinare? Perché non realizzare quanto avviene in molti paesi nei quali
il trasporto privato sostiene quello pubblico? Si apre uno scenario dentro il quale,
proprio per evitare un conflitto sociale e
nel lavoro, la politica, sia al governo sia
all’opposizione, deve ripensare a cosa far
diventare il Tpl nel futuro della regione e
del paese.
Da questa premessa dovrà avviarsi
un’azione che inverta e contrasti quanto la
manovra di Tremonti ha deciso.
La Filt e la Cgil auspicano e lavoreranno
per un “Nuovo Patto per il Tpl”. Evitando
di fingere che quanto abbiamo davanti sia
facilmente affrontabile, e cercando di
impedire che a pagare siano i soggetti più
deboli: utenti e lavoratori.
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DIRITTI, LA STAGIONE DELLE SCELTE
di Damiano Galletti, Segretario Generale Cgil Brescia
La decisione di Federmeccanica di disdire il contratto nazionale di
lavoro del 2008, firmato da tutti i sindacati di categoria, è un atto
che da un lato punta a svuotare la contrattazione nazionale e dall’altro rappresenta una scelta di rottura e di scontro frontale nei
confronti della Fiom e della Cgil nel suo insieme.
Le premesse di questo attacco, in atto da diversi mesi, hanno
avuto un’accelerazione all’inizio dell’estate con la vicenda di
Pomigliano. Che, è bene ricordarlo, non è stato un accordo ma
un’imposizione della Fiat ratificata da alcuni sindacati. In quell’occasione, attraverso un referendum (strumento che Cisl e Uil
promuovono solo a corrente alternata...), il 40% dei lavoratori di
Pomigliano (soprattutto donne e giovani) ha comunque detto no al
ricatto che sacrificava diritti fondamentali quali la malattia e lo
sciopero in nome di un lavoro purchessia.
Ad ogni modo, già dal dibattito che ne è seguito ed è ancora in
corso, è apparso evidente che Governo e ampi settori di
Confindustria vorrebbero estendere il modello Pomigliano a tutto
il paese. Le ricette sono le stesse da 30 anni: flessibilità, riduzione dei salari, e ancora flessibilità. Con l’aggiunta della limitazione del diritto di sciopero, della riduzione dei pagamenti per la
malattia, della riduzione dei giorni di ferie.
Spiegano che in questo modo si crea occupazione e ricchezza.
È quanto dicono da 30 anni a questa parte, con il risultato che in
Italia c’è un alto livello di disoccupazione, le ore lavorate sono più
che in altri paesi europei, i salari sono tra più bassi.
In Polonia e in Serbia un operaio di un’azienda automobilistica
prende 350 euro al mese, in Germania 3mila euro. Noi dove ci
mettiamo?
C’è il rischio di risultare noiosi, ma è bene ripeterlo: in Italia c’è
un grande problema di giustizia sociale. Da 30 anni chi ha tanto ha
Contribuire a costruire una società
coesa e solidale, non spaccata in ricchi e
poveri, e questi ultimi in italiani e stranieri, è l’essenza stessa di un sindacato.
sempre di più, da 30 anni chi ha poco ha sempre
di meno. Forse è anche per questo, per inciso,
che i consumi latitano.
Il contratto nazionale di lavoro, che ora viene
messo in discussione in nome della flessibilità e
perché “così impone la globalizzazione”, dovrebbe svolgere una funzione redistributiva e stabilire quali sono i diritti e i doveri specifici dei lavoratori e dei datori. La sua funzione storica, in un
certo senso, è stata quella di unire le forze di
soggetti deboli (i lavoratori) di fronte a un soggetto forte (il datore di lavoro). Se il contratto
nazionale viene meno, chi ci rimette sono i lavoratori, non le imprese.
Citando Cesare Romiti - sì, proprio l’ex amministratore delegato Fiat intervistato il 28 agosto
dal Corriere della Sera a proposito di Marchionne
e soci - «Un conto è trovare la formula per ricomporre la contrapposizione, come in Germania,
con la partecipazione dei lavoratori ai risultati
dell’impresa. Ma la contrapposizione degli interessi ci sarà sempre, ed è un bene che ci sia».
Le cose per i lavoratori, peraltro, non vanno bene
da parecchi anni. Negli ultimi 25 anni (fonte Ocse)
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i redditi da lavoro hanno perso 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale. Sono decine di miliardi di euro che dai lavoratori
sono andati agli imprenditori. E si sa che, se i soldi sono troppo
concentrati nelle mani di pochi, c’è anche la domanda interna che
diventa stagnante. Che è poi una delle cause della crisi economica
ancora in corso.
Anche sul piano dei diritti le cose vanno male per i lavoratori e il
segno è dato soprattutto dai tanti contratti atipici che hanno
occupato la scena nell’ultimo decennio. Atipico significa controllo
pieno sui tempi, sull’intensità del lavoro, sulla durata del contratto, sulle retribuzioni.
La controriforma delle pensioni approvata in estate è un rialzo
brutale dell’età pensionabile che accentua gli squilibri già esistenti. Che colpisce i lavoratori e soprattutto le lavoratrici. E che non
interviene sul futuro pensionistico dei giovani, il grande nodo irrisolto del sistema previdenziale attuale.
Non ci stupisce. D’altronde, con le pensioni così come per il resto,
l’operato del Governo si è finora caratterizzato per la sua iniquità e ingiustizia. Nulla
è stato chiesto alle rendite e ai grandi
patrimoni, tutto si è scaricato sul lavoro
dipendente e sui pensionati.
La torta deve essere divisa più equamente.
Il modo in cui farlo dice anche del futuro
che vogliamo e di che paese vorremmo
lasciare ai nostri figli e nipoti. Nel nostro
paese ci sono tanti imprenditori che fanno
bene il loro mestiere e c’è anche un sapere
operaio diffuso. Il mercato e le imprese
sono importanti, ma lo sono ancora di più le
persone, uomini e donne.
Le tasse devono essere ridotte, certo, ma a
chi e in che modo visto lo stato delle finanze pubbliche? C’è l’evasione fiscale, immensa. C’è la necessità di ridurre la tassazione
per chi investe e per chi lavora. Aumentando
le tasse, al contrario, per i grandi patrimoni
e per le rendite finanziarie.
La politica dovrebbe fare questo. Ma, nel
migliore dei casi, è assente, in altri è complice e guarda al passato. Che è poi un
guardare al breve periodo, brevissimo, e
agli interessi propri e dei propri amici.
Il futuro è l’economia verde, è l’innovazione, sono le tecnologie
avanzate. Se questa è la strada, noi ci saremo e faremo la nostra
parte. Se la ricetta è il passato e il simulacro della flessibilità
come panacea di tutti i mali, noi non ci saremo.
È la stagione dei diritti e delle scelte coraggiose.
Un’ultima osservazione, che riguarda nello specifico la provincia
di Brescia e la Lombardia. Da dopo le elezioni politiche (e amministrative in molti Comuni) del 2008 e il pacchetto sicurezza della
stessa estate, in molte Amministrazioni del bresciano, profondo
Nord, c’è stato un fiorire di provvedimenti accomunati dalla voglia
di dividere le comunità in base all’etnia (o tra chi può pagarsi la
mensa e chi no) e di ridefinire le politiche locali di welfare. Mensa
negata ai bimbi di Adro, bonus bebè per i soli figli di italiani, residenza legata al reddito: sono solo alcuni esempi di ordinanze e
delibere decise dalle amministrazioni locali a guida Lega Nord-Pdl
negli ultimi mesi.
Nel paese delle tante partite Iva e della grande evasione fiscale,
l’agire della Lega Nord cerca di scardinare quotidianamente il
concetto di solidarietà. Come Camera del Lavoro di Brescia insieme alla Fondazione Piccini per i diritti dei popoli e al gruppo
di avvocati dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione –
stiamo da mesi contrastando, oltre che sul piano dell’iniziativa
politica, anche sul piano legale queste delibere e provvedimenti.
Nella gran parte dei casi con successo, un aspetto questo che di
per sé giustificherebbe l’iniziativa legale. Non è però solo questo:
in tutti i casi, infatti, le vertenze di tipo legale si sono rivelate
un’ottima opportunità per aprire un dibattito pubblico, anche
attraverso i media locali, su concetti chiave quali solidarietà,
integrazione, povertà.
Sono concetti che vivono in concreto nelle tante situazioni di difficoltà delle famiglie anche nella ricca Lombardia. Riguardano i
tanti cassintegrati costretti a vivere da tempo con meno di mille
euro al mese e i tanti, troppi, atipici che di tipico hanno oramai
solo la confidenza con uno stato precario.
Parlare di queste persone, uomini e donne, e rappresentarne gli
interessi, è l’essenza stessa di un sindacato che si vuole definire
tale. E che vuole contribuire a costruire una società coesa e solidale. Non spaccata in ricchi e poveri e, questi ultimi, in italiani
e stranieri.
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La funzione organizzativa,
specchio del rinnovamento della FILT
di Mariano Chierchia, Segretario Organizzativo Filt-Cgil Lombardia
Secondo le principali ricerche in ambito
occupazionale, per adattarsi ai cambiamenti futuri dei mercati del lavoro saranno
necessarie competenze nuove e più elevate.
La crisi economica e fattori strutturali quali
la globalizzazione, i mutamenti tecnologici,
l’invecchiamento della popolazione, la
regolazione di strumenti legislativi verso
normative sovranazionali, contribuiscono
alla rapida trasformazione delle strutture
organizzative delle Istituzioni, delle
Imprese, dei grandi soggetti collettivi e
delle Associazioni di rappresentanza.
Questa evoluzione, talvolta accelerata,
comporta come conseguenza la carenza di
competenze adeguate, il ritardo nelle soluzioni a nuove esigenze, come le richieste di
una rappresentanza più efficace e flessibile,
in sintonia con le sollecitazioni di innovazione che provengono dal mondo del lavoro.
È indispensabile, quindi, anche per il sindacato compiere sforzi per migliorare le
proprie performances, nei molteplici
campi di attività; in un contesto di difficoltà di risorse economiche, di accentuata
competitività fra le organizzazioni di rappresentanza e di una riduzione generalizzata di vocazione e di appartenenza.
La Conferenza di Organizzazione è stata
l’occasione, per tutte le categorie e le
strutture confederali della CGIL, per approfondire e analizzare in dettaglio lo stato
patrimoniale, la condizione finanziaria, la
dotazione storico-documentale, la ricchezza del capitale umano. Una dettagliata
radiografia dell’ossatura di ciò che permette alle iniziative sindacali di realizzarsi e
fare proposte politiche.
Ecco, uno studio approfondito a partire proprio dagli aspetti tipici della funzione organizzativa; una sorta di rivoluzione copernicana, in quanto, tradizionalmente, nelle
aggregazioni a carattere sindacale e politico, tale funzione è sempre stata considerata di secondaria importanza. In sintesi, i
Dipartimenti Organizzazione determinanti
all’interno della CGIL per realizzare e
implementare il grande progetto collettivo
di mettere insieme le categorie, la confederazione e i servizi, attraverso lo sviluppo
della presenza nel territorio!
È necessario cambiare il ruolo del segretario
organizzativo, non ridurlo a gestore di piccoli problemi cercando, invece, di costruirne un profilo ben strutturato e visibile.
È fondamentale recepire il concetto che
operare nel sindacato sia una peculiarità specifica e che esso rappresenta
un sistema “a legame debole”. In questo tipo di sistema tutti gli elementi di
un’organizzazione interagiscono fra
loro ma mantengono un elevato grado
di autonomia, quindi sarebbe completamente sbagliato immaginare di
gestire i rapporti fra strutture del sindacato con gli strumenti tipici delle
aziende, che hanno la missione di produrre profitto per i propri azionisti. Ad
esempio, può creare un corto circuito
ed ottenere risultati opposti all’obiettivo, supporre di poter risolvere problemi di gestione attraverso emanazione di “editti” o “ordini di servizio”!
Al contrario, un’efficace funzione
organizzativa deve valorizzare la
capacità di flessibilità e di maggior
adattamento a varie soluzioni, proprio
di una struttura a legame debole.
Per il comparto dei trasporti, è un vantaggio notevole poter disporre di offerte di rappresentanza diffuse secondo la
variabilità della domanda (immigrati,
alte professionalità, lavoratori stanziali,
L’organizzazione come
opportunità di costruire
un percorso di consolidamento, dall’approccio del
tesseramento, al riconoscimento delle idee e
della strategia della federazione, alla realizzazione
del senso di appartenenza.
operatori di linea). Un’altra opportunità che
può essere colta dal sindacato è la realizzazione di un modello organizzativo che valorizzi maggiormente il decentramento e il
territorio, processo favorito dalla dissoluzione delle grandi aziende pubbliche e private
– con il relativo carico politico delle categorie storiche - e dal diverso peso che avrà il
contratto nazionale.
In sostanza, il dipartimento organizzativo
come recettore di nuovi bisogni esterni e
promotore di soluzioni empiriche che soddisfino le esigenze recepite.
È chiaro che un processo così dinamico,
per realizzarsi in modo efficace, necessita
della condivisione più diffusa possibile e di
un elevato feed-back nel percorso di formazione. In una struttura, come il sindacato, a legame debole, divengono fattori
di valore aggiunto categorie quali la “qualità” delle persone e la “autodeterminazione” degli attori.
Allora è fondamentale che la funzione
organizzativa presidi i fabbisogni formativi
e assicuri il massimo sforzo possibile per lo
sviluppo professionale.
In tal senso, l’Ufficio Studi e Ricerche della
Filt Lombardia rappresenta un esempio consolidato, avendo realizzato il duplice obiettivo di mantenere adeguati standard di aggiornamento formativo e di contribuire alla
costruzione di nuovi e giovani sindacalisti.
Eccellenti i risultati ottenuti, rendendo
possibili economie di scala, attraverso
un’efficiente sinergia con la Filt Nazionale
e con la Camera del Lavoro di Milano.
Ricercare percorsi formativi trasversali per
tutta la federazione, onde costruire figure di
tecnici, utili a tutta la struttura, che sappiano fornire risposte di qualità su materie specialistiche – fiscali, pensionistiche, contribuzione integrativa, disagio sociale, sicurezza
sul lavoro – ma diffuse, ad ampio spettro, nei
vari comparti dei trasporti.
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Per il dipartimento organizzazione il tema
dello sviluppo formativo e professionale
dovrà essere mirato anche a realizzare un
utilizzo più efficace ed efficiente di nuovi
software informatici e tecnologie più avanzate, attraverso un’attenta valorizzazione
del personale impiegato per offrire un
servizio di maggior qualità agli iscritti.
L’implementazione delle sezioni del sito
della Filt (recentemente rinnovato e puntualmente aggiornato) è un obiettivo da
realizzare affinché anch’esso divenga
patrimonio di tutta la struttura e strumento specializzato e di valore aggiunto,
attraverso cui partecipare in modo più diffuso l’attività, le scelte e le iniziative
della federazione.
La funzione organizzativa è il filtro delle
iniziative e degli appuntamenti di tutta la
struttura, perciò le è propria la missione di
custodirne la memoria. Quindi un efficiente metodo di archiviazione del lavoro prodotto è indispensabile per verificarne,
politicamente, gli obiettivi raggiunti, ma
soprattutto assume la responsabilità di
consegnare integra la storia degli avvenimenti contemporanei ai futuri gruppi dirigenti della federazione.
Una fonte di autofinanziamento è costituita
dal lavoro svolto dall’Ufficio Vertenze, per
cui è strategico porre un’attenzione specifica verso quest’attività. Va ottimizzata
l’interfaccia dell’ufficio con i vari settori,
affinché si realizzi il coordinamento delle
pratiche legali attraverso un unico interlocutore per ogni dipartimento, che diventa
riferimento specialistico per affiancare
l’Ufficio Vertenze nei momenti di picco dell’attività.
Nelle vertenze collettive in grandi aziende
è da ricercare un metodo concertativo fra
le organizzazioni sindacali, per favorire la
scelta del lavoratore su criteri di qualità
del servizio offerto, ottenere limpide conciliazioni, certezza dei tempi del giudizio
e del risarcimento dovuto.
Per il dipartimento organizzazione è
essenziale guardare nel profondo il cambiamento che ci sta coinvolgendo. Il
mosaico degli iscritti è composto sempre
maggiormente da giovani, immigrati, lavoratori di piccole imprese, per cui l’offerta
dell’organizzazione deve sintonizzarsi su
bisogni e domande che provengono da
questa nuova base di associati.
A tal riguardo, i servizi forniti devono
collocarsi in una logica di rappresentanza,
si deve instaurare un rapporto fiduciario e non di mera consulenza- con coloro che
chiedono un servizio, tendere verso standard di qualità e offrire, possibilmente,
servizi personalizzati.
Il mondo dei servizi come porta di accesso
all’universo sindacale!
La funzione organizzativa come opportuni-
tà di costruire un percorso di consolidamento, dall’approccio del tesseramento,
al riconoscimento delle idee e della strategia della federazione, alla realizzazione
del senso di appartenenza.
Il team del dipartimento organizzazione
dovrà essere ossessionato dalla ricerca di
comunicare un sentimento, un’emozione; il
marchio della Filt dovrà trasmettere qualcosa di inequivocabile. Segmentare la base
associativa per capirne le domande, definire le esigenze comuni, tracciare i confini
per un’azione che miri all’identificazione
degli interessi per rafforzare un’identità.
In quest’ottica, complessa ed integrata,
vanno prodotte iniziative sul piano dell’insediamento associativo.
Progetti mirati vanno indirizzati verso i
settori a più debole tutela, non dimenticando che nei comparti e nelle aziende
storiche, dove è maggiore la presenza del
sindacato, iniziative di insediamento devono caratterizzarsi per meglio definire e
qualificare l’azione della Filt.
Necessario un approfondimento sulla presenza, sulla struttura e sullo stato patrimoniale delle imprese del comparto nel
territorio regionale, programmando in tal
senso piani di lavoro sulle politiche di insediamento con i territori provinciali.
Nell’area metropolitana va caratterizzata
la visibilità della categoria anche in prospettiva degli interventi legati all’EXPO
2015; ribadendo che ad ogni programma
specifico va indicato il segmento di azione,
le risorse dedicate, i soggetti che contribuiscono a fornirle e i tempi di realizzazione.
Tutti i progetti devono essere sostenibili,
monitorati e verificati!
Compito vitale del dipartimento organizzazione è il presidio del governo dei
budget assegnati nei vari capitoli delle
entrate e delle uscite.
Alcuni adempimenti immediatamente
realizzati permetteranno di focalizzare
l’attenzione su alcune voci di bilancio
che incidono notevolmente sull’equilibrio
finanziario: il monitoraggio dell’attività
del recupero crediti nei confronti delle
aziende è fondamentale per garantire la
certezza del trasferimento delle quote
contributive dovute all’organizzazione; la
revisione di alcuni contratti con i fornitori
favorisce, oltre che un risparmio nella
spesa, la possibilità di una scelta di maggior qualità; una maggiore attenzione nell’utilizzo delle varie utenze può, da subito, apportare un beneficio ai flussi di risorse in uscita.
L’obiettivo è riuscire a costruire dei bilanci che abbiano una lettura unificata fra la
struttura intrecciata Milano/Lombardia e i
territori.
È chiaro che il benchmark cui tendere è la
predisposizione del bilancio sociale della Filt.
Questo processo presenta maggiori livelli
di trasparenza e maggiori possibilità di
controllo, favorendo una riflessione sulla
missione dell’organizzazione, sulle sue
prospettive di sviluppo, verificando le
coincidenze fra azioni ed aspettative.
È fondamentale una sinergia strategica fra
le opzioni di natura politica, che devono
essere condivise per poi realizzarsi compiutamente in pratiche organizzative.
La funzione organizzativa agisce, quindi,
come “attivatore di rete”, perno motivazionale, centro di integrazione fra i vari
dipartimenti. In questa logica, deve promuovere la più ampia, partecipata e chiara visibilità ai progetti politici maturati
dalla federazione, deve essere il “motore”
motivazionale per tutti i protagonisti dell’organizzazione che, attraverso le loro
azioni, rendano riconoscibile una Filt più
moderna, più efficiente e più incisiva nella
sua iniziativa.
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Il Bilancio sociale
Tempo presente
come strumento di cambiamento
di Luca Stanzione, Responsabile Progetto Bilancio sociale Filt Lombardia
“Bilanciare” è sempre un po’ mettersi in discussione
per cambiare o per confermare scelte che non riguardano
la contingenza del periodo, ma che condizionano l’intera
strategia di chi si appresta a valutarsi.
La Filt-Cgil Lombardia inizia il percorso
per la redazione del Bilancio Sociale
Partecipato, che è stato oggetto di discussione dentro le assisi congressuali e la
Conferenza di Organizzazione.
“Bilanciare” è sempre un po’ mettersi in
discussione per cambiare o per confermare scelte che non riguardano la contingenza del periodo ma che condizionano l’intera strategia di chi si appresta a valutarsi.
Lo strumento del Bilancio Sociale trova
ispirazione dentro quel dibattito accademico attorno alla Business Ethics che, agli
inizi degli anni Ottanta, approda nelle università nordamericane specializzate nella
formazione. Al centro sta il tentativo di
mettere a valore la tesi secondo la quale il
Mercato contiene dentro di sé un fine
socialmente utile. L’Etica d’Impresa è la
scintilla originaria che apre un dibattito
che ha attraversato tutte le culture politiche, sia nordamericane sia europee, con
posizioni eterogenee e che ha subito un
continuo cambiamento nel corso dell’ultima parte del secolo scorso. Se la Business
Ethics sia alimentatrice della mancata
redditività dell’impresa è un principio che
mai è stato verificato empiricamente. Al
contrario, sappiamo che un’organizzazione è più capace di rispondere alle esigenze dei suoi portatori di interesse, nel
nostro caso i lavoratori e gli iscritti alla
CGIL, nel momento in cui interiorizza
visioni molteplici. Un modello valutativo
che nel tempo ha preso il nome di
Balanced Scorecard.
Le motivazioni che spingono la Filt-Cgil e
l’intera Confederazione a percorrere l’impegnativa strada della rendicontazione
sociale sono molteplici e richiamano le
ragioni più profonde della nostra storia.
La storia del movimento sindacale europeo
è segnata da un patto originario tra lavoratrici e lavoratori indirizzato verso rivendicazioni che tendono a migliorare le pro-
prie condizioni di vita. Un patto originario
che dura fino ad oggi perché contraddistinto da un duplice rapporto di Fiducia.
Un rapporto fiduciario e di delega alla rappresentanza. Il primo, che è sempre stato
legato ad una condivisione di ideali e talvolta di ideologie che, nelle organizzazioni sindacali del terzo millennio, lasciano
il posto a rapporti fiduciari legati alla
funzionalità dell’organizzazione sindacale.
Un rapporto fiduciario, il secondo, che
richiede costantemente una sua riedizione
e una sua riconquista. Un rapporto attraverso il quale costruire un’idea più alta e
di prospettiva fuori dall’utilità immediata.
Recentemente il quotidiano l’Unità ha pubblicato un sondaggio dal quale emergeva
con chiarezza una delle ragioni per le quali
le lavoratrici e i lavoratori scelgono l’iscrizione al sindacato: l’utilità finale, “mi
iscrivo perché mi serve”. La motivazione
immediata può sembrare quella di un’iscrizione povera nella condivisione di valori di
cui è portatrice la CGIL. Questa motivazione obbliga, però, noi tutti a far leva su questa valutazione originaria per rimettere in
condivisione i valori di fondo che ci uniscono. Per questa ragione il Bilancio Sociale
rappresenta uno degli strumenti più immediati attraverso i quali la nostra categoria
e la confederazione possono rinnovare
costantemente il proprio rapporto di fiducia con i lavoratori. Solo con precise politiche di accountability – politiche di programmazione e controllo- l’impresa sociale riesce a sviluppare e a conservare nel tempo il
suo principale asset istituzionale: la relazione di fiducia con i propri aderenti. Il
Bilancio Sociale nasce con la finalità ultima
di dimostrare la capacità di ottenere risultati coerenti con le aspettative che le lavoratrici e i lavoratori hanno nei confronti sia
della Filt sia della Confederazione.
Un’altra ragione che alimenta l’esigenza
della Filt di costruire il proprio Bilancio
Sociale è il ruolo che hanno per la nostra
categoria i “portatori di interessi”.
Il Bilancio Sociale nasce sempre come un
rendiconto della gestione interna delle
organizzazioni, per valutare e prendere
decisioni e altrettanto utile per rappresentare all’esterno la propria attività.
Avremmo potuto farci cucire dall’esterno
un Bilancio Sociale. Al contrario, abbiamo
scelto la strada di sperimentare un percorso che parta da dentro di noi, non in un
rapporto con un soggetto estraneo all’organizzazione ma organico ad essa, perché
pensiamo ad un percorso più severo ma più
efficace nell’analizzare noi stessi e, partendo da qui, cambiare modelli organizzativi, trasmettere i nostri valori ed essere
coerenti con gli esempi che diamo.
Per la natura confederale della Cgil e della
Filt vi è un patto non scritto tra il nostro
sindacato ed il resto della società.
Un patto che dice del nostro impegno per
rappresentare i lavoratori, contrattare e
migliorare il paese. Il nostro Bilancio Sociale
è innanzitutto rivolto a ritessere nuovamente questi impegni. La categoria dei trasporti è caratterizzata dal muoversi costantemente su un terreno di contrattazione
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che vede coinvolti tre soggetti: i lavoratori, le imprese e i fruitori dei servizi che
imprese e lavoratori garantiscono. Questa
particolarità attiene a quelle categorie
che sindacalizzano il settore dei servizi. In
questa relazione composta di più soggetti,
sta a noi essere capaci di relazionarci alle
imprese, ai lavoratori, ai cittadini: questo
è il punto di forza di qualsiasi nostra battaglia. In ogni vertenza o rivendicazione in
cui assumiamo la prospettiva di rivolgerci
contemporaneamente a questi tre soggetti, aumentiamo le nostre possibilità di
conseguimento degli obiettivi prefissati.
È così quando sappiamo rivolgerci anche
ai pendolari oppure ai clienti finali della
filiera delle attività dentro le quali agiscono i trasporti, ad esempio la grande distribuzione.
Per questo il Bilancio Sociale ha una
forte valenza politico sindacale ed è uno
Irresponsabile” illustra nel dettaglio i passaggi storici con i quali si è arrivati all’assunzione della “massimizzazione di valore
per l’azionista” come unico paradigma
manageriale, in nome del quale l’oscillazione del valore di ogni singola azione è
diventata la missione principale dei gruppi dirigenti delle grandi società. Per cui
non importa se, irresponsabilmente, nei
rapporti trimestrali e semestrali si comunica un andamento positivo che non si
avrà la certezza di raggiungere. Possiamo
individuare un comportamento altrettanto irresponsabile e diseconomico nell’allungarsi a dismisura delle filiere produttive nel settore dei servizi. La lunga catena
di finte cooperative e società, riscontrata
nella ormai famosa vicenda di Pieve
Emanuele, ne è l’esempio.
Per tutte queste ragioni la Responsabilità
Sociale d’Impresa ritorna prepotentemen-
degli strumenti utili a questa relazione.
Un’ulteriore ragione attiene alla crisi economica che stiamo attraversando. La crisi
ci muove ad un ragionamento più ampio a
proposito del ruolo che le imprese dovranno avere nella fase che si aprirà successivamente, e di quale ruolo giochi il sindacato perché il sistema produttivo diventi
più responsabile di quanto non lo sia stato
fino ad ora. Non è questo il luogo per
indagare tutte le ragioni scatenanti di
quella che, durante il congresso della Filt
Lombardia, anche noi abbiamo definito
come la crisi economica più rilevante da
quella degli anni trenta. Penso sia utile
ragionare su quale ruolo hanno avuto le
imprese e il loro management nell’origine
della crisi. Luciano Gallino in “L’Impresa
te all’ordine del giorno come una delle
battaglie che il movimento sindacale può
assumere attraverso proposte concrete,
come quella che porti la legislazione europea e italiana ad imporre alle imprese un
sistema di rendicontazione sociale che
includa tra le obbligatorietà la misurazione dell’impatto ambientale e dell’impatto
sociale. Lo strumento che meglio rendiconta la responsabilità sociale dell’impresa è il Bilancio Sociale.
Per noi che facciamo sindacato, in un
periodo di crisi, la rendicontazione
all’esterno delle nostre strutture, su come
sono impiegate le risorse che ogni singolo
iscritto affida alla Filt-Cgil, ha lo scopo di
rendere trasparente il comportamento
della categoria sindacale e quindi riedifi-
care un rapporto fiduciario da parte degli
iscritti che formano il “cuore motivazionale” della nostra organizzazione.
“Bilanciare” obiettivi e risultati è il compito principe del Bilancio Sociale di un’organizzazione. Ogni società (for profit o
non profit) è portatrice di interessi che
spingono la stessa alla riconferma della
sua esistenza, anno dopo anno. La misurazione del soddisfacimento di questi
interessi, inevitabilmente, ha strumenti
diversi secondo la loro tipologia.
Nel caso volessimo conoscere lo stato di
salute di un’azienda, leggeremmo il suo
Bilancio civilistico. Non basterebbe,
ovviamente, ma sarebbe il passo principale per operare una prima valutazione.
Nel caso volessimo dare un giudizio a
proposito dell’efficienza di una scuola
pubblica, è evidente che i primi dati da
prendere in considerazione sarebbero la
composizione delle classi, il numero di
studenti promossi o bocciati. Lo stesso
può valere per una squadra di calcio: in
questo caso l’immediatezza è meno scontata, in quanto avere unicamente l’informazione sulla sua forma economica
potrebbe essere fuorviante. Al contrario,
saremmo in grado di dare un giudizio
compiuto solo se leggessimo, a fianco dei
dati economici, quelli legati ai successi e
agli insuccessi sportivi, l’impegno orario
dedicato alla preparazione agonistica.
Ugualmente vale per la nostra categoria
sindacale: se vogliamo tenere monitorata
la vita politica della nostra struttura sindacale, dobbiamo fissare i nostri obiettivi
politici sul medio-lungo termine e per
ognuno di questi capire ed elaborare degli
indicatori che registrino il conseguimento
dell’obiettivo prefissato, monitorarli nel
corso del tempo, confrontarli con l’impegno economico e gli investimenti indirizzati verso ciascuno degli obiettivi.
Questo determinerà un riadeguamento
dei parametri di entrate/uscite o
costi/ricavi e ridisegnerà le nostre priorità e le nostre finalità. Solo così saremo in
grado di monitorare le trasformazioni che
attraversano la Filt. L’insieme di questi
indicatori intesserà la trama di un sistema di accountability della nostra attività
politica e sindacale.
Per la Filt-Cgil il proprio Bilancio Sociale
sarà un Processo di cambiamento che proverà ad affrontare quei grandi temi che il
congresso della nostra categoria ha messo
in luce. La Filt ha sempre dimostrato grande capacità di analisi per comprendere
quali innovazioni apportare per poter
rispondere con maggiore efficacia alle
nuove esigenze della categoria dei trasporti. Il primo Bilancio Sociale sarà un
nuovo strumento per alimentare questo
cambiamento.
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Trasporti in Valle D’Aosta
Tempo presente
Un territorio
piccolo con
problemi grandi
di Antonio Fuggetta, Segretario Generale Filt-Cgil Valle D’Aosta
Con la fase congressuale da poco conclusa
è necessario che la Filt, anche nel nostro
territorio, riesca ad essere più incisiva,
accelerando i processi ormai ineludibili.
In una Regione a Statuto Speciale che conta
circa 126 mila abitanti, i lavoratori dei trasporti sono circa 1600 ed operano in gran
parte in aziende di piccole dimensioni (al di
sotto di 15 addetti): circa 900 nel trasporto
a fune con quasi i 2/3 stagionali; circa
350 nella viabilità; circa 60 nel trasporto ferroviario; circa 250 nelle autolinee;
gli altri sono ripartiti tra il trasporto
aereo ed il merci, caratterizzato dalla
presenza per la gran parte di padroncini
e in altri piccoli settori.
La Filt, con i suoi circa 600 iscritti, con
notevoli difficoltà e dispendio di risorse
soprattutto per le ferrovie in quanto le
trattative sono svolte a Torino (sede
dell’ex compartimento) e per le funivie
con sede in alta montagna, è insediata
su tutto il territorio regionale con la
presenza nelle quattro sedi periferiche
della CGIL.
Inoltre, è impegnata da sempre in modo
propositivo in un confronto serrato con
le Istituzioni, in particolare con la
Regione che, forte della sua autonomia,
legifera anche in materia trasportistica.
L’assenza di una politica dei trasporti è
all’origine di gran parte dell’inefficienza
del Sistema Paese che non ha risparmiato
la nostra Regione la quale, pur essendo a
statuto speciale, ne ha subito gli effetti
negativi soprattutto per le ferrovie.
In Valle D’Aosta permane il problema dei
collegamenti ferroviari inadeguati e obsoleti e l’attivazione dell’alta velocità tra
Torino e Milano ha ulteriormente isolato il
territorio valdostano. Peraltro, il processo
di diffusa automazione ha prodotto in questi anni una riduzione drastica di personale.
Per questo, l’Accordo di programma sottoscritto tra il Ministero dello sviluppo economico, le regioni Piemonte e Valle D’Aosta
ed RFI e l’Intesa sulle grandi opere tra
Governo e regione Valle D’Aosta siglata di
recente devono essere considerati prioritari ed immediatamente esigibili, al fine di
consentire lo sviluppo dell’infrastruttura
ferroviaria, per una migliore qualità del
servizio offerto all’utenza e la condivisione
di un sistema coeso ed inclusivo.
Il trasporto a Fune rappresenta il settore
trainante per il turismo e per l’economia
regionale. Per questo si esprime forte preoccupazione nel caso venisse a mancare
l’intervento pubblico sulle infrastrutture
che consentono il radicamento sul territorio montano dei lavoratori che operano nel
settore, prevalentemente in alta quota,
con forti sbalzi di dislivello e di temperatura. A tal proposito, è opportuno un
approfondimento sulle conseguenze per la
salute degli addetti, coinvolgendo la
Confederazione, il Patronato INCA – CGIL
ed esperti di medicina di alta montagna,
anche a seguito dell’inasprimento del
sistema previdenziale.
Nel trasporto Pubblico Locale, il 2010 e il
2011 rappresentano per il Sindacato anni
intensi in quanto è stato approvato il
nuovo piano di bacino di traffico per il
prossimo decennio e si procederà al rinnovo degli appalti di servizio su tutto il territorio. Si dovrà vigilare quindi sulla garanzia delle clausole sociali per i lavoratori
interessati, sullo sviluppo degli attuali servizi offerti all’utenza e su un sistema tariffario accessibile a tutte le fasce sociali.
Per il trasporto aereo, i lavori di potenziamento dell’aeroporto “Corrado
Gex” mirati a consentire i voli notturni, finalmente, daranno un’adeguata
risposta alla clientela turistica che frequenta la nostra regione, in particolare per le settimane bianche, sperando
che si producano anche risvolti occupazionali positivi.
A differenza della ferrovia, il settore
della viabilità ha avuto un forte sviluppo autostradale nei collegamenti dei
due trafori, per il versante francese e
per quello svizzero. Questo impegna
costantemente la Filt in trattative congiunte, tra le due società e le relative
rappresentanze sindacali, in particolare
da quando, dopo la tragedia nel tunnel
del Monte Bianco, è stato costituito il
GEIE (Gruppo europeo di interesse economico) per la gestione del servizio con
personale italiano e francese.
Nei servizi di pronto intervento e antincendio, attualmente in appalto, si sono sviluppati i livelli occupazionali. Riteniamo fondamentale che queste attività siano internalizzate e, considerate le direttive
Europee in materia di sicurezza nelle gallerie e la sua evoluzione in campo nazionale,
in fase di rinnovo del CCNL della viabilità è
necessario esplicitare meglio ruolo e mansioni del responsabile della sicurezza.
La formazione, in particolare per i giovani
quadri e delegati, è fondamentale per la Filt
che deve riuscire ad investire in tale campo,
pur tenendo conto delle esigue risorse a
disposizione del territorio. Va, infine, data
continuità alle azioni necessarie per affrontare in modo adeguato i rinnovi contrattuali.
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Nella grande distribuzione
la dignità non è in vendita
In linea
di Paola Bentivegna, Filt-Cgil Lombardia
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Una lotta bella: cronistoria di una vertenza in difesa dei
lavoratori tra grande impresa, consorzi e cooperative.
Ayman, Ana, Matteo, Ly... un racconto di ordinario e
nascosto sfruttamento tra cambi di appalto e diritti negati.
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Questo è il racconto di alcuni dei 62 lavoratori e lavoratrici, in presidio permanente dall’8 giugno davanti ai cancelli della
GS/Carrefour di Pieve Emanuele.
E che vede coinvolti la grande impresa,
appaltatori (Consorzio Gemal Servizi),
Società Cooperative (Gemal Cooperative),
cooperative RM e La Gioventù.
Abbiamo raccolto dalla loro voce, dalla
fine di luglio ad oggi, la descrizione, le
preoccupazioni e le speranze su una vicenda che li ha posti all’attenzione dei media,
ma che ha toccato nel profondo chi di noi
l’ha seguita.
Il presidio nasce perché il loro posto di
lavoro è stato messo in discussione a seguito di un parziale cambio di appalto avvenuto ai primi di giugno.
La nuova cooperativa subentrata, infatti,
era disponibile ad impiegare solo una
parte degli occupati, ma a patto che
accettassero condizioni di lavoro peggiorative con diminuzione di 13ª mensilità, il
non pagamento dei primi tre giorni di
malattia, l’imposizione di una sorta di cottimo individuale (un numero stabilito di
colli l’ora). Per chi non raggiungeva la
quantità imposta, la sanzione era un trasferimento dove la cooperativa ha altre
attività, a circa 1000 chilometri.
È anche il racconto di donne e uomini di
sedici etnie diverse che, nonostante tutto,
nutrono speranza e fiducia che la loro storia possa avere una conclusione positiva.
“Il Giorno” del 28 luglio riporta che nella
giornata precedente, davanti ai cancelli
della GS Carrefour di Pieve, i lavoratori in
presidio hanno saputo che i loro colleghi
che hanno accettato, in condizioni al massimo ribasso, di entrare nella cooperativa
subentrata nel subappalto GS (La Gioventù),
hanno avuto il pagamento delle mensilità
arretrate, di competenza della vecchia
cooperativa (coop. RM), mentre a loro non
è stato erogato nulla.
La rabbia è esplosa, anche perché la setti-
mana precedente le telecamere di LA7
avevano ripreso i responsabili RM che
distribuivano il cedolino della busta paga.
Peccato che, in realtà, non era stato effettuato alcun versamento!
Sono persone semplici, ma non sfugge loro
una cosa evidente: “Forse la vicenda di
Pomigliano ha offuscato la nostra (data
l’importanza dei numeri e della Fiat),
anche se la situazione è simile; o forse,
quando si tratta di cooperative, la cosa
diventa meno interessante e se ne occupano in pochi.”.
Questi lavoratori ricordano la vicenda dei
lavoratori dell’Innse che, nello stesso
periodo di un anno fa, avevano evitato che
la proprietà vendesse l’azienda, in utile, e
che loro rimanessero senza lavoro.
“La nostra storia è, in qualche modo, peggiore. Infatti, nei magazzini GS/Carrefour
l’attività continua in piena regola, anche
se senza di noi, sempre con lo stesso
appaltatore, il Consorzio Gemal Servizi, e
senza che vi sia stata alcuna crisi”.
Quest’ultimo, costituito nel 2009 e con un
capitale sociale di 30.000 euro, ha subappaltato alla Cooperativa Gemal, Consorzio
di cooperative che, a sua volta, ha subappaltato alla cooperativa RM, anch’essa
costituita da qualche mese.
Il motivo principale della decisione della
cooperativa, di non avvalersi della loro
collaborazione, i lavoratori lo imputano
all’essere iscritti alla Cgil da alcuni anni
ed al fatto che hanno così sviluppato una
cultura sindacale importante, che fa loro
rivendicare dignità e diritto allo sciopero.
Ma queste cooperative non accettano lavoratori “di questo tipo”, prediligendo lavoratori non tutelati e ricattabili.
Si pensava che la committente GS pretendesse prezzi inferiori per pagare il lavoro
di logistica e che la nuova cooperativa
dovesse andare incontro a questa esigenza! Notizia verificata come non vera.
Certo, se i passaggi da uno diventano tre o
più, è probabile che chi sta al termine della
catena non abbia una remunerazione “sufficiente” del lavoro in forza del contratto
di appalto e cerchi di scaricare una parte
dei costi, o minor diritti, sui lavoratori.
Alla notizia del cambio di appalto, sono
iniziate le trattative sindacali per il subentro, ma senza esito: la cooperativa chiedeva il consenso del sindacato al licenziamento di 25 soci, ma senza l’utilizzo dei
criteri di scelta previsti dalla legge.
Quando la cooperativa ha compreso che,
attraverso l’intervento sindacale, non
avrebbe potuto fare nulla di ciò che voleva,
ha cominciato a lamentarsi di non poter
avere un rapporto diretto con i lavoratori
e dell’impossibilità di esercitare il proprio
ruolo di responsabilità.
“Ci aspettavamo che sarebbe successo
tutto questo, anche se non avevamo avuto
problemi in diversi cambi di appalto precedenti .”
Già a febbraio, c’erano state le prime
lamentele sulla produttività che doveva
aumentare e i capi avevano cominciato a
dare dei “lavativi” ad alcuni di loro; c’erano state minacce di trasferimento in altre
regioni e un esercizio del potere ostentato
per far capire “chi era il più forte” e di
quali agganci, economici e politici, potesse avvalersi la nuova cooperativa.
Nella maggior parte dei casi, questi soci
lavoratori sono nello stesso impianto da
parecchi anni e chi di loro ha lavorato precedentemente in un’azienda si è subito
reso conto della diversità di tutele dei
lavoratori. Domandano: “perché la legge
permette alle cooperative di chiudere
dopo uno o due anni di attività con facilità estrema, nonostante il lavoro continui
ad esserci e il fatturato anche? Perché, di
fatto, si permette che le attività appaltate
a società di capitale siano subappaltate a
cooperative costituite, per la maggior parte
dei casi, per quell’appalto?”
La loro sindacalizzazione è cominciata nel
2005, con un altro sindacato confederale
che ha portato nel tempo all’applicazione
del contratto UNCI. Molti, pur non conoscendone i dettagli, si sono resi conto che
garantiva loro meno diritti del contratto
precedente e quindi solo un piccolo gruppo di lavoratori lo ha accettato.
Da allora, arriviamo al 2007, molti si sono
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iscritti alla Cgil, anche se la piena fiducia
nel nostro sindacato arriverà solo nel
2009, periodo nel quale si cerca concretamente di far applicare alla cooperativa le
regole previste dal contratto nazionale.
Ci ripetono sempre che le persone, anche
nel sindacato, fanno la differenza. “Siamo
grati a chi ci segue da più di un anno e ci
rendiamo conto che nel comprensorio di
Pavia non sono sufficienti i funzionari che
attualmente ci sono e che sarebbero
necessarie più forze, per poter seguire le
molteplici situazioni uguali alla nostra”.
Parlano poco delle loro situazioni familiari, ma c’è “la forte preoccupazione che,
alla ripresa della scuola, non si
possa dare ai figli tutto il necessario
e forse nemmeno accompagnarli in
macchina, perché la benzina costa,
e poi ci sono le bollette, il mutuo, i
piccoli prestiti”, tutto quello che
era stato costruito, convinti di
avere un lavoro stabile.
Continuano ad avere fiducia e certezza di potercela fare, consapevoli di
non essere passati dalla parte del
torto anche nei momenti più delicati
e di non aver ceduto a provocazioni.
Gli stessi parenti ed amici, che
comunque li sostengono, sono perplessi sull’utilità del presidio permanente. Non mancano i momenti di
sconforto, in cui si sentono abbandonati e ricordano il Sindaco di Pieve
che aveva dichiarato che si sarebbe
incatenato con loro e che nessuno ha
più visto.
Ci dicono che il Giudice “non può
non essere dalla nostra parte”.
Recriminano “sulla mancanza di
unità tra le diverse categorie di lavoratori presenti all’interno del loro
magazzino e ritengono che se ci
fosse stato un lavoro comune, la cosa
sarebbe stata forse risolta, anche se
c’è stata comunque la presa di posizione di altri sindacati e l’appoggio
ad alcune nostre iniziative”.
Invece, è assente la solidarietà di chi
(nella guerra tra poveri che le controparti
sanno bene innescare), il proprio posto di
lavoro non lo sente in pericolo.
Tra chi ha accettato di andare nella nuova
cooperativa, con le condizioni imposte,
qualcuno cerca di dimostrare un po’ di
solidarietà, ma solo con le parole. Infatti,
tutti hanno paura e nessuno vuole esporsi,
anche perché c’è la certezza che qualcuno
faccia “la talpa” e vada a riportare tutto
ai capi. Già alla fine di agosto sono arrivati i primi licenziamenti (10 lavoratori) per
ricordare che chi non si sottopone ai ritmi
massacranti, pretesi dall’appaltatore,
perde il proprio posto di lavoro.
Non vi è molta fiducia verso i vecchi com-
pagni di lavoro, nella convinzione che nessuno di loro si lamenterà delle nuove e
peggiori condizioni di lavoro.
Il 30 luglio c’è stata l’udienza presso il
Tribunale di Milano, per il ricorso d’urgenza presentato dalla Filt e il 3 agosto il
Giudice si è pronunciato completamente a
favore dei 62 lavoratori: ne ha ordinato la
riammissione al lavoro presso la stessa
sede di Pieve Emanuele.
È una grande vittoria di lavoratori e lavoratrici, che con tenacia hanno presidiato
per due mesi l’azienda e non hanno abbandonato la speranza di farcela e della Filt
che li ha sostenuti e consigliati.
L’assurdo è che i lavoratori, il 5 agosto, rientrano come soci nella cooperativa che era
uscita dall’appalto e che quindi non ha alcuna attività. Un gioco delle parti nella filiera
delle imprese e cooperative coinvolte per
disattendere la sentenza del Giudice.
Il 20 agosto si è svolta l’udienza per il
ricorso presentato (comportamento antisindacale) ed anche qui il Giudice si è pronunciato a favore dei lavoratori e ha condannato la Cooperativa RM per antisindacalità, sia per i licenziamenti effettuati per
ritorsione sindacale, sia per la sospensione
cautelare a tempo indeterminato del rappresentante sindacale che aveva osato protestare contro le dimissioni “estorte” ad
una parte dei lavoratori sotto la minaccia
di essere mandati via e perdere il lavoro.
Intanto il committente GS/Carrefour continua a far finta di nulla in una serie di
contraddittorie e assurde prese di posizioni quali “noi siamo parte lesa”, “i lavoratori non sono nostri dipendenti”, “agiremo
come mediatori tra le parti”.
“La Melfi del Nord”: così ormai è chiamata sui giornali la vicenda dei 62 lavoratori
di Pieve Emanuele. Dal 27 agosto, dopo il
blocco della merce in entrata, hanno dedicato decine di articoli, portando alla luce,
finalmente, il gioco di scatole cinesi che
cooperative e consorzi, col beneplacito
dei committenti, attuano da anni.
I lavoratori, nel frattempo, hanno attivato
insieme a noi diverse iniziative, fra
cui quella eclatante della “finta spesa
proletaria”. Almeno una quarantina
di soci sono entrati nel punto vendita
Carrefour di Assago e, dopo aver
riempito i carrelli con generi di prima
necessità, hanno chiesto alle casse
prima e alla direzione del supermercato poi di poter prendere le spesa
come acconto dei tre mesi senza
retribuzione.
Siamo, infatti, arrivati ad una situazione di disperazione, che ci ha fatto
avviare un appello urgente di solidarietà, per raccogliere soldi e generi
alimentari da consegnare alle 62
famiglie.
Negli incontri più recenti in
Prefettura, con la presenza della
CGIL milanese e lombarda, la beffa
è stata la reiterata proposta di reintegrare 26 lavoratori. E gli altri 36?
Forse una parte in un appalto fantasma in Piemonte. Come se fossero
liberi professionisti o colli da spostare da un territorio ad un altro.
L’unico ad avere ascoltato con attenzione e grande rispetto la loro storia,
raccontata da una delegazione di
lavoratori e sindacalisti della Filt, è
stato il Cardinale Tettamanzi che ha
promesso, attraverso Mons. Monti,
un intervento concreto a sostegno dei lavoratori ed ha espresso tutta la propria “preoccupazione per il modo infangante con il
quale, dietro finte cooperative, si nascondono in realtà condizioni di sfruttamento
che gettano ombra sull’operato nobile dell’autentico movimento cooperativo”.
____________________________
Mentre andiamo in stampa, apprendiamo
che la sera del 17 settembre, presso la
Prefettura di Milano, è stato raggiunto
l’accordo per la riassunzione dei 62 lavoratori/lavoratrici. Il testo dell’accordo e
la storia della vertenza sono consultabili
sul sito www.filt.lombardia.it.
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La legalità è
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un impegno di tutti
di Annalia Farina, Segretaria Filt-Cgil Lombardia
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Alla cessazione di attività, al
fallimento, al ricorso alla
messa in mobilità dei lavoratori fa seguito, quasi immediatamente, l’apertura di
un’altra impresa che riassume gli stessi lavoratori licenziati ed in mobilità, al solo
scopo di lucrare sulle agevolazioni previste e guadagnare un vantaggio economico
consistente ed un notevole
abbattimento del costo del
lavoro, in frode alla legge.
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Da mesi la nostra Organizzazione è impegnata su molti fronti, consapevole di muoversi all’interno della più grande crisi dal
dopoguerra. Gli ultimi dati sulla cig, che
aumenta complessivamente del 90% rispetto al precedente anno, così come quello
dei licenziamenti, ci confermano l’estrema
difficoltà di questo momento. Mentre la
Germania, nel secondo trimestre del 2010,
mette a segno una crescita congiunturale
del 2,2%, rispetto allo 0,5% sempre con-
giunturale del primo trimestre 2010 e mentre il Regno Unito cresce dell’1,1% (+0,3%
nel primo trimestre), il nostro Paese fa
segnare nei dodici mesi il tasso di crescita
più basso, all’1,1%. (Dati Ocse). I numeri
confermano che in Italia la crisi continua a
“mordere”, con ricadute sulla produzione
e sull’occupazione anche a lungo termine.
Completati i periodi concessi dagli ammortizzatori sociali, assistiamo in molti casi
alla fase delle ristrutturazioni, con l’espulsione di moltissime lavoratrici e lavoratori
dal mondo del lavoro.
Tutto questo è affiancato da una politica
industriale sempre più assente, senza un
criterio di lungo respiro, da scelte di governo che, invece di supportare gli investimenti, l’innovazione, la ricerca, tagliano drasticamente, impoverendo nei fatti l’intero
sistema, oltre a gravare duramente solo su
parte della cittadinanza. Anche la poca
ripresa che si avverte, in mancanza tra l’altro di un vero progetto per il paese, si presenta in molti casi come una “jobless recovery”, un recupero senza lavoro. D’altra
parte, il lavoro e l’uscita dalla crisi sembrano
proprio non essere in agenda per il Governo,
visti anche i 5 punti del programma da
poco comunicati dalla “maggioranza”:
Federalismo Fiscale, Fisco, Mezzogiorno,
Giustizia, Sicurezza. Come si può facilmente notare, il problema del lavoro non è nemmeno sfiorato. Nel quadro che resta drammatico, assistiamo a fenomeni di deindustrializzazione pesante e, in non pochi casi,
a spregiudicate politiche di esternalizzazione e delocalizzazione della produzione da
parte di alcune imprese. Questo non può
non avere come conseguenza, quello che ha
sottolineato il Prof. Sergio Bologna, cioè un
forte rallentamento del settore “servizi alle
imprese”. Le imprese, per fronteggiare la
crisi, ricorrono alla riduzione dei costi
attuando politiche di contenimento, nel
complesso, legittime. Alle volte, invece,
ricorrono ad azioni ai limiti della legalità e
della concorrenza sleale, se non addirittura
a vere e proprie azioni truffaldine, alla
ricerca di profitti sempre più alti e nella violazione totale dei diritti di chi lavora per
loro. Per quanto riguarda i settori seguiti
dalla Filt-Cgil, il Trasporto Merci, la
Logistica e la Cooperazione sono quelli che
stanno pagando di più la crisi. Fin dall’inizio
la Filt Lombardia si è fatta promotrice verso
le Rappresentanze Datoriali del settore,
laddove è stato possibile, per costruire ed
utilizzare strumenti di intervento idonei ad
escludere l’interruzione del rapporto di
lavoro, (uno per tutti l’Osservatorio
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Regionale Merci) e garantire il rispetto dei
diritti e della legalità. Non basta. Occorre
tenere ben presente che, in Regione
Lombardia, sono presenti le più importanti
imprese logistiche, di spedizione e di autotrasporto. Inoltre, i processi di esternalizzazione, già citati, di parti del ciclo produttivo e la presenza nelle filiere delle attività
industriali, commerciali, dei servizi, hanno
visto crescere notevolmente la presenza,
anche attraverso un sovrapporsi di subappalti, di imprese e cooperative, dando luogo
più facilmente all’utilizzo di pratiche quanto meno scorrette. È avvenuta una crescita
non governata delle cooperative negli ultimi
10 anni e l’assenza di centri logistici e intermodali, ormai collocati sulle direttrici fuori
dalla Lombardia, ha contribuito a creare
una rete di imprese, diffuse sul territorio,
che impediscono qualunque presenza del
sindacato, che disdegnano l’appartenenza
alle Associazioni di Categoria e, in alcuni
casi, sfuggono anche al controllo delle istituzioni preposte alla vigilanza e al rispetto
della legge. Questa situazione è da tempo
all’attenzione della CGIL Regionale e della
Filt Lombardia perché, in questi settori,
molto più che altrove, vi è il grave rischio
che il perdurare della crisi generi tra le
molte conseguenze anche comportamenti
poco trasparenti o fuori dell’alveo normativo. Questi comportamenti, se da una parte
sono duramente lesivi nei confronti delle
lavoratrici e dei lavoratori coinvolti nei processi critici, dall’altra generano forti distorsioni del mercato e favoriscono una feroce
concorrenza sleale a danno delle imprese
maggiormente “virtuose”. Trovandoci di
fronte ad una filiera di questo tipo, quindi,
riteniamo indispensabile un approccio non
solo di categoria, ma fortemente confederale, nel dotarci sempre più di una somma
di competenze, di un agire e di un modello
complessivo di relazioni sindacali, pronto ai
mutamenti continui ed attento e presente,
con il preciso scopo di prevenire le inevitabili distorsioni.
È ferma volontà della Filt Lombardia, di
concerto con la Cgil Regionale, continuare
nell’azione sindacale fin qui messa in atto,
costruendo una rete diffusa, particolarmente nei consorzi e nelle cooperative, di delegate e delegati, attrezzati e consapevoli,
che punti a costruire un approccio al mondo
della cooperazione che tenga conto delle
reali condizioni di lavoro delle lavoratrici e
dei lavoratori e, soprattutto, della preoccupante presenza di cooperative “spurie” che
ha raggiunto l’80% nella nostra regione.
Non solo, vogliamo andare più in là e realizzare un’azione capillare, in tutti i territori della regione, anche per evitare tutti i
possibili effetti di dumping sempre presenti.
Abbiamo purtroppo riscontrato, accanto a
comportamenti corretti e perfettamente
rispondenti a lineari pratiche imprenditoriali, modalità di utilizzo degli ammortizzatori sociali non coerenti con la corretta
applicazione delle procedure previste dalla
legislazione vigente. In tali casi, alla cessazione di attività, al fallimento, al ricorso
alla messa in mobilità dei lavoratori ha
fatto seguito, quasi immediatamente,
l’apertura di un’altra impresa che ha riassunto gli stessi lavoratori licenziati ed in
mobilità, al solo scopo di lucrare sulle agevolazioni previste e poter così guadagnare
un vantaggio economico notevole ed un
altrettanto notevole abbattimento del
costo del lavoro, in frode alla legge, nuocendo enormemente ai lavoratori, apportando un grave danno alle aziende concorrenti e perpetrando gravi truffe nei confronti della collettività.
Allo scopo di prevenire e contrastare ogni
possibile uso distorto o illegale degli
ammortizzatori sociali e degli incentivi
previsti, che diventa poi elemento di alterazione della competizione sul mercato
per le imprese che se ne avvantaggiano e
danno pesante per i lavoratori, la Filt
Lombardia e la Cgil Regionale, oggi più che
mai, intendono impegnarsi, utilizzando
con il maggior rigore possibile tutti gli
strumenti e le procedure per impedire che
si realizzi un uso non corretto o fraudolento di ogni norma o procedura di legge,
orientando in tal senso l’agire sindacale.
Hanno così deciso di rendere pubbliche le
proprie posizioni, inviando alle Controparti
datoriali ed a tutte le Istituzioni coinvolte
una lettera aperta in cui hanno dichiarato
esplicitamente le procedure e i comportamenti che adotteranno.
È prioritario che nel nostro quotidiano ci si
attenga a procedure di verifica e di controllo puntuale, a partire dal momento in
cui si riceve la comunicazione di apertura
di procedure e anche successivamente
all’accordo, per individuare chi ha riassunto parte o tutto il personale sospeso ed in
quale attività esso sia impiegato, valutando ogni documentazione, fatto o atto che
possa servire ad accertare e denunciare
eventuali abusi.
Di più, la Filt Lombardia e la Cgil Regionale
sono intenzionate ad attivarsi nelle sedi
più opportune per segnalare gli abusi di
cui si verrà a conoscenza, sollecitando gli
Organismi istituzionali e gli Enti Ispettivi.
Se per il sindacato è di estrema importanza un approccio fortemente confederale
nel rigore e nella trasparenza delle azioni,
solo con la sinergia di tutti gli attori interessati è possibile contrastare operazioni
pericolose ed illegali, che possono trasformare il grave periodo di crisi in occasioni
per mettere a punto strategie per lucrare,
che finiscono per danneggiare tutta la collettività senza esclusioni.
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Finalmente la stabilità
per i lavoratori di Sacbo
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di Cesare Beretta, Segretario Generale Filt-Cgil Bergamo
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Il 17 giugno 2010, presso l’Unione Industriali di Bergamo, è stato sottoscritto il Protocollo d’Intesa di stabilizzazione dei precari che da
anni lavoravano per Sacbo, la società che gestisce l’aeroporto di Orio
al Serio (BG) in somministrazione per conto di un’agenzia interinale.
In un contesto occupazionale ancora nero per il territorio
Bergamasco, dove si continuano a perdere posti di lavoro, dove la
cassa integrazione la fa da padrona, dove sono in continua crescita i ricorsi alla mobilità e gli ammortizzatori sociali non riescono
più a reggere la domanda, la Filt e la Cgil di Bergamo, unitamente
alla categoria Fit-Cisl ed al suo confederale, riesce a siglare
in piena controtendenza, un importante accordo sull’occupazione.
La Uil si è accodata solo al momento della firma.
Nell’accordo si stabilisce che 60 di questi lavoratori, attualmente
utilizzati nelle unità passeggeri e operazioni voli (alcuni precari da
oltre 5 anni), sono finalmente assunti a tempo indeterminato. I primi
40 a decorrere dal primo ottobre 2010 e i restanti 20 dal primo gennaio 2011, quasi tutti in continuità di part-time di 6 ore lavorative.
Inoltre, Sacbo ha assunto ulteriori 30 lavoratori a tempo determinato per la stagione estiva 2010 e, per il futuro, si è impegnata a ricorrere ordinariamente ai contratti di lavoro a tempo determinato. Si
è data disponibile anche a valutare, in due incontri annuali preventivi ai picchi stagionali estivo e invernale, le effettive esigenze del
lavoro per garantire il servizio, previa informativa alla RSU.
Molto stringente è stato il ragionamento proposto dalla Filt
all’azienda. Nel 2006, a fronte di 4,5 milioni di passeggeri transitati dall’aeroporto, i dipendenti complessivamente utilizzati sono
stati 541: 100 soci di cooperativa, 65 interinali, 376 dipendenti
diretti di Sacbo. Nel 2009, a fronte di 7,8 milioni di passeggeri, i
dipendenti complessivamente utilizzati sono stati 480, rispettivamente 70 soci, 45 interinali e 365 dipendenti Sacbo, con un risultato finale di un’economia a favore dell’azienda di 61 lavoratori,
rispetto ad un incremento di passeggeri pari a un più 73%.
I raffronti non tengono conto delle modifiche organizzative e produttive che hanno, in qualche misura, ridotto alcuni carichi di lavoro.
In assenza di riorganizzazioni conseguenti alle scelte del maggior
vettore Ryan-Air, il sindacato avrebbe avuto pieno titolo a richiedere ben altra occupazione.
Positivi i commenti di entrambe le parti. Per Sacbo “l’accordo permette di soddisfare le esigenze operative dello scalo e rendere stabile la posizione di figure professionali con caratteristiche rispondenti ai bisogni, in un contesto che necessita di opportune competenze
per garantire la continuità degli alti livelli di efficienza conseguiti nel
corso degli anni e riconosciuti all’aeroporto di Orio al Serio”.
Da parte sindacale sono stati sottolineati 3 aspetti: “la centralità
del lavoro e della crescita occupazionale; l’attenzione allo sviluppo sostenibile; il ruolo di volano svolto dall’aeroporto a supporto
dell’attrattività del territorio e per la sua crescita economica”.
La rilevanza di questo accordo è data dal contesto economico produttivo in cui la trattativa si è sviluppata. Parliamo di un aeroporto che si colloca al terzo posto in Italia per passeggeri (ha superato Linate da poche settimane) e merci e che rappresenta un’opportunità decisiva per le scelte localizzative di multinazionali, di
imprese industriali e di servizi.
In una provincia in cui permangono forti deficit e ritardi, aggravati dalla continua crescita della domanda di trasporto, logistica e
comunicazione, occorre mettere al centro un progetto di sviluppo
sostenibile attraverso piani di governo del territorio che puntino
all’incremento di questi settori. A tale scopo, è richiesto un impegno straordinario delle Amministrazioni Pubbliche per realizzare le
infrastrutture necessarie ad una migliore accessibilità dello scalo.
In questo panorama, a Sacbo l’onere di assicurare attenzione alla
sostenibilità delle attività aeroportuali nel rispetto dell’ambiente. Ad
un’impresa tecnicamente molto valida e all’avanguardia nel Paese,
che fa oltre 11 milioni di euro di utili, è richiesto di mettere i propri
dipendenti in condizione di lavorare bene, in un clima in cui il rispetto e la dignità della persona abbiano sempre un ruolo centrale.
Noi come Filt, consapevoli del ruolo dell’aeroporto, siamo sempre
stati attenti alle esigenze aziendali, cercando di coniugarle con i
diritti e le tutele dei lavoratori che vogliamo rappresentare al
meglio. Auspichiamo che questo accordo, frutto di un lavoro minuzioso e paziente, durato molti mesi, sia una prima tappa nel percorso di comune impegno costruttivo per realizzare progetti sempre
più innovativi ed importanti nell’interesse di tutti.
Come non ricordare, a chiusura di questo articolo, il “Manager che
ha fatto volare l’aeroporto”, l’ingegnere Ilario Testa recentemente scomparso?
Orio al Serio è stato l’ultimo capolavoro di una vita frenetica,
iniziata alla Dalmine a 14 anni, dove da semplice impiegato è
arrivato ad Amministratore Delegato, proseguita in Argentina
dove ha lasciato l’impronta della sua indiscussa professionalità.
Ilario Testa ha riversato l’esperienza maturata in quarant’anni
alla Dalmine nella realizzazione del suo grande sogno: far nascere dal nulla un capolavoro che oggi si chiama Orio al Serio. Nei
suoi 15 anni di Presidente della Sacbo, oltre alle sue qualità
manageriali, che gli hanno valso la laurea honoris causa in ingegneria gestionale, ha affascinato il mondo imprenditoriale, politico e del lavoro per le sue doti non comuni di umanità, moralità e amore per la cultura. Ricorderò l’ingegnere Ilario Testa
come una persona che al rigore univa l’attenzione alle persone e
che onorava sempre la parola data e gli impegni presi. Era un
vero signore, direi di altri tempi, come non ce ne sono più.
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Più spazi verdi e servizi
per Milano
Spazio Aperto
di Oliviero Baccelli
La valorizzazione per investimenti in nuove infrastrutture degli effetti economici
derivanti dal recupero di aree ferroviarie dismesse
Tipologia di aree dismesse
Tipologia di effetto economico
Asset lineari: Raccordi
ferroviari o tratte lineari
Economia dei trasporti
Economia urbana e immobiliare
☺
☺
☺ = difficilmente valorizzabile in finanziamenti per investimenti
☺☺ = facilmente valorizzabile in finanziamenti per investimenti
Asset spaziali: Scali merci,
aree di composizione
e scomposizione treni,
aree di deposito locomotori
☺
☺☺
Il simbolo ☺ è utilizzato per favorire una prima chiave di lettura della rilevanza dei fenomeni economici. Infatti, aiuta a comprendere l’effettiva possibilità di trasferire nel finanziamento di nuovi interventi ferroviari la valorizzazione economica generale derivante dai
benefici economici di tipo trasportistico (quali, ad esempio, i risparmi di tempo derivanti
dal miglioramento del sistema dei trasporti o, nel secondo caso, la riduzione nei costi di
gestione del sistema di trasporto pubblico locale) e di tipo immobiliare (miglioramento
dell’accessibilità di un’area o messa a disposizione di aree valorizzabili).
Gli effetti trasportistici
Rispetto agli effetti di economia dei trasporti, le aree dismesse possono essere valutate, tenendo conto dei seguenti aspetti relativi alla viabilità e rispetto al trasporto pubblico e ai servizi ferroviari in termini di:
a) aumento della capacità di deflusso grazie alla riduzione delle interferenze fisiche con
la rete stradale locale;
b) incremento delle Origini/Destinazioni possibili e di migliori assegnazioni di percorso
dei pedoni, dei ciclisti, dei veicoli e dei mezzi pubblici;
c) minori costi di produzione dei servizi su
gomma attuali grazie all’aumento della
velocità commerciale dovuta alle minori percorrenze o alle migliori integrazioni fra linee;
d) potenziale riduzione della congestione
stradale grazie alla domanda attratta
dalle nuove o ammodernate infrastrutture ferroviarie finanziate attraverso
l’accordo Comune - FS.
In particolare, rispetto a quest’ultimo
punto è rilevante cogliere la portata degli
eventuali effetti derivanti dall’incremento
dei servizi ferroviari regionali in termini di
policy dei trasporti e della mobilità in
ambito regionale e del relativo costo economico a carico del bilancio della Regione.
In sintesi, le difficoltà nel trasferire in
finanziamenti di nuove infrastrutture ferroviarie i benefici economici di carattere
trasportistico sono evidenti, perché di tipo
generale, a vantaggio cioè di un’ampia
collettività, e non facilmente monetizzabili, se non attraverso forme di pedaggio in
grado di produrre effetti distortivi rispetto
ad altre aree all’interno della stessa città
e, pertanto, non in grado di ottenere il
consenso politico degli Enti Locali.
S PA Z I O
L’obiettivo di queste riflessioni è quello di evidenziare le opportunità e le criticità dei
tentativi di creare valore economico dal recupero delle aree ferroviarie dismesse, come
sta lentamente avvenendo a Milano, dove sono disponibili aree di grandi dimensioni in
punti strategici della città, oggi spazi inaccessibili, che vanno restituiti all’uso urbano per
riconnettere quartieri separati dalla ferrovia e crearne di nuovi. L’idea di fondo è quella
di rimarcare gli aspetti di metodo del tema, in modo da indicare come attivare quel circuito virtuoso necessario per poter disporre anche di nuovi finanziamenti per lo sviluppo
della rete e dei servizi ferroviari nelle regioni interessate dai processi di riconversione
urbana. Quest’ultimo aspetto è fondamentale per poter rispettare gli accordi sottoscritti nel 2008 fra il Comune e il Gruppo FS che riguarda aree per circa un milione di mq.
Una prima lettura di tipo matriciale permette di evidenziare quali sono gli elementi centrali
per comprendere come sia necessaria una visione sistemica delle aree, che tenga cioè conto
delle diverse forme di compensazione e perequazione fra aree all’interno del comune.
A P E R T O
Considerazioni economiche in merito al recupero delle aree
ferroviarie dismesse a Milano, di grandi dimensioni e in punti
strategici della città, oggi spazi inaccessibili, che vanno restituiti all’uso urbano per riconnettere quartieri separati dalla
ferrovia e crearne di nuovi.
Gli effetti sul mercato immobiliare
Gli effetti sul mercato immobiliare possono essere raggruppati in tre classi:
1) effetti diretti sulla disponibilità di risorse immobiliari; qui il focus è sulle risorse – suoli e fabbricati – che sono dismessi, totalmente o parzialmente oppure
che sono riutilizzati, se già in uso o
dismessi, o utilizzati per la prima volta;
2) effetti indiretti sulle risorse immobiliari esistenti; qui il focus è sulle variazioni delle esternalità reali – in primo
luogo riduzioni o incrementi dell’impatto negativo del traffico di attraversamento – imputabili in particolare alla
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S P A Z I O
A P E R T O
Spazio Aperto
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diversione dei percorsi o alla presenza
delle nuove imponenti infrastrutture;
3) effetti di integrazione sulle risorse
immobiliari esistenti; qui il focus è
sulla variazione dell’accessibilità locale, regionale e nazionale delle diverse
zone che compongono l’area di studio,
derivanti dai miglioramenti degli asset
delle infrastrutture ferroviarie.
Evidentemente, gli effetti del primo tipo
sono quelli che attengono all’uso delle
risorse immobiliari urbane, prevalentemente collocate nelle aree di maggior
pregio o a maggiore potenzialità di valorizzazione, e per le quali s’impone l’elaborazione di piani strategici di recupero
di ampio respiro (ad esempio, nel caso di
Milano per le ipotesi di riutilizzo dell’ampia zona dell’attuale stazione di Porta
Genova o di parte dello Scalo Farini).
Fra queste aree prevalgono certamente
quelle attualmente legate alle stazioni e
alle aree ferroviarie di supporto al sistema (cabine dei gruppi elettrogeni, aree di
composizione e scomposizione treni, parchi ferroviari merci). Ma vi sono da comprendere anche quelle tratte di collegamento allo scoperto, come nel caso della
tratta fra San Cristoforo e Porta Genova,
sebbene per queste ultime le ipotesi di
riutilizzo, se non per migliorare la viabilità locale, siano assai più limitate, tanto
che alcune iniziative suggeriscono di utilizzare la tratta fra San Cristoforo e Porta
Genova per realizzare una nuova opera di
canalizzazione e costituire una via d’acqua per ampliare l’attuale ruolo dei
Navigli.
Gli effetti del secondo tipo consistono
principalmente nella valorizzazione degli
edifici oggi esposti agli effetti negativi del
traffico di attraversamento, e all’eventuale deprezzamento di quelli che lo saranno
in futuro. In questo secondo caso, un’attenta pianificazione del territorio può contribuire ad identificare delle opportunità
dove lo sviluppo precedente non guidato
aveva generato solo criticità, come nel
caso delle aree di Greco.
Infine, gli effetti di integrazione imputabili
all’accresciuta accessibilità delle zone consistono principalmente nell’individuazione
di nuove potenzialità o nella previsione di
modificazioni delle esistenti e nell’eventuale redistribuzione spaziale delle attività
presenti. Questo tipo di effetti non è chiaramente spontaneo, ma deve essere promosso da politiche di accompagnamento di
tipo urbanistico e territoriale di aree ben
specificate, che richiedono un forte coordinamento ed integrazione di tutte le iniziative e gli interventi nelle varie fasi di progettazione, realizzazione e gestione.
Tutti questi tipi di effetti sono suscettibili
di indurre modifiche anche sensibili sul
valore degli immobili, sugli usi dei suoli,
sulle convenienze relative degli investimenti pubblici e privati.
Una visione di sintesi
La lettura matriciale suggerita sottolinea
come solo una tipologia di effetti economici, quella di tipo immobiliare derivante
dalla disponibilità di asset spaziali, sia
effettivamente in grado di generare valori
di tipo economico trasferibili in finanziamenti per nuove infrastrutture e servizi
ferroviari. Le altre tre caselle della matrice evidenziano come gli effetti economici
siano presenti e in alcuni casi possono
essere anche molto rilevanti, ma la reale
possibilità di trasferire questi effetti economici in forme di finanziamento è nulla,
a meno di creare effetti distorsivi rispetto
ad altri contesti.
La sintesi di questo approccio al tema
suggerisce di affrontare la questione aree
ferroviarie dismesse in modo sistemico, in
modo che gli indici di edificabilità, cioè
gli elementi sintetici che permettono la
generazione di valore economico destinabile al finanziamento delle nuove opere
ferroviarie, tengano conto delle oggettive
difficoltà di “catturare la rendita” in tre
casi su quattro delle tipologie di aree
dismesse.
Lo strumento più semplice da utilizzare è
quello di considerare le aree ferroviarie
dismesse di un comune o di un’area omogenea per caratteristiche socio economiche e urbanistiche all’interno di un comune come la somma delle singole aree e non
considerarle come elementi urbanistici
differenziati e senza legami.
In questo scenario, la “cattura della rendita” non è comunque scontata, tenendo
conto dei costi di bonifica delle aree, dei
vincoli alla destinazione d’uso di molto
manufatti di tipo ferroviario e dei valori
immobiliari del contesto. Le difficoltà di
successo anche di ambiziosi progetti di
riconversione di aree in forte prossimità di
contesti valorizzati da una nuova accessibilità derivante dal completamento di
importanti interventi ferroviari, come nel
caso del quartiere Santa Giulia sorto a
fianco della stazione di Rogoredo, sottolineano la necessità di affrontare il tema
delle aree ferroviarie dismesse con l’ottica anche di ridurre i possibili rischi immobiliari amplificati da ottiche meramente
speculative di breve periodo. Infatti,
l’equazione miglioramenti nel sistema trasportistico uguale valorizzazioni immobiliari non è scontata.
La necessità di strumenti urbanistici flessibili, che garantiscano la reale fattibilità
degli interventi in tempi rapidi e in modo
sincrono, è un elemento centrale nelle strategie di riconversione delle aree. Inoltre, è
opportuno valorizzare al massimo la capacità di trasporto del sistema ferroviario, permettendo la localizzazione dei grandi
attrattori di traffico (sedi di grandi uffici
pubblici e privati, ospedali, complessi universitari) nelle immediate vicinanze delle
stazioni ferroviarie esistenti e previste
attraverso policy che favoriscano le densificazione urbanistica. Anche la mitigazione
del rischio, attraverso la possibilità di predisporre un mix di edifici con funzionalità
diverse e complementari, risulta importante per il successo delle iniziative, che va
misurato in termini sia economici classici
sia di miglioramento della qualità della vita
a Milano.
È chiaro a tutti che l’equilibrio ottimale
fra le esigenze delle città e del sistema
ferroviario si ottiene solo evidenziando
e condividendo in maniera esplicita
gli obiettivi perseguiti dalle controparti
sin dalle prime fasi della negoziazione.
OLIVIERO BACCELLI
Vicedirettore CERTeT - Centro di Economia
Regionale Trasporti e del Turismo
dell’Università Bocconi, e Direttore del
Master Universitario in Economia e
Management dei Trasporti, della Logistica
e delle Infrastrutture. È autore di libri sul
tema della mobilità delle merci in
Europa, sul trasporto aereo in Italia, sulla
portualità e sulle relazioni fra trasporti e
territorio, e di articoli scientifici in materia di economia dei trasporti. Coordina e
partecipa a numerose ricerche in economia dei trasporti, sviluppo del territorio e
impatto socio-economico di grandi opere
infrastrutturali per conto di Amministrazioni Pubbliche e grandi imprese.
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Sul futuro di Milano
Spazio Aperto
incombe un Piano Urbanistico
sbagliato e pericoloso
di Antonello Boatti
La valorizzazione di Milano e della sua area
urbana, anche in vista di Expo 2015, può
essere affidata a vari interventi, a condizione che essi contribuiscano a migliorare la
percezione delle caratteristiche fondamentali (storiche, monumentali, ambientali)
della città e che, soprattutto, lascino un’eredità positiva e utile alla città anche dopo la
conclusione dei grandi eventi.
Il nuovo Piano di governo del territorio (PGT) di Milano è stato adottato e, nonostante gli sforzi dell’opposizione, rimangono gravissime
preoccupazioni per il futuro della città. Infatti, le migliaia di emendamenti presentati dalle opposizioni hanno centrato l’obiettivo di
parziali modifiche, ma non sufficienti per cambiarlo nella sostanza.
La battaglia continua ma diventa più complessa e difficile e si sposta
sul terreno delle osservazioni.
Esaminando la struttura del piano appare innanzitutto confermata
una rigida configurazione radiocentrica della città senza alcuna prospettiva di sviluppo verso la formazione di un’area multipolare e
vasta, quando tutti gli esempi di città europee funzionali ed efficienti si presentano governate da aree metropolitane a carattere intercomunale. Infatti, la compressione a Milano di tutte le attività nel territorio comunale (peraltro assai ristretto in termini di superficie)
genera la scarsità di spazi liberi e verdi che sono confinati ormai ad
ovest e a sud, nel territorio agricolo.
Le tangenziali, troppo a ridosso del territorio urbanizzato, stringono
d’assedio la città e richiedono una svolta verso la città multipolare.
La città metropolitana è la prima indispensabile cosa da fare, quindi,
non solo per governare il territorio, ma far vivere meglio Milano e
tutta l’area urbana. Nulla di questo è contenuto nel PGT e, anzi,
provvedimenti collaterali importanti come Expo 2015, il tunnel Molino
Dorino-Linate e lo stesso Ecopass accentuano le caratteristiche negative dello schema di funzionamento della città.
L’assenza di un progetto per l’area metropolitana è aggravato dalle
dimensioni demografiche che il piano vuole dare alla città di Milano
in un arco di tempo sproporzionato e in contrasto con la stessa legge
urbanistica regionale: si pensi che, secondo la legge, il Documento di
piano dovrebbe avere validità quinquennale, il PGT invece ha l’ambi-
zione di valere addirittura per trenta anni!
Le quantità di progetto dichiarate all’interno del PGT nell’arco di
validità del piano prevedono per Milano uno scenario inquietante: al
2030, 1.787.637 abitanti!
La previsione di PGT prevede un incremento di popolazione folle,
quasi mezzo milione di abitanti in più (una città più grande di Bologna
calata dentro la Milano attuale!): una previsione che si scontra, non
solo con la reale capacità della città di accogliere nuovi abitanti, ma
anche con la possibilità di offrire ai futuri abitanti una qualità abitativa che si fondi su principi di equità sociale, in termini di servizi alla
persona e di sostenibilità ambientale con indici edificatori ammissibili e una crescita in altezza contenuta.
La capacità insediativa ritenuta ammissibile per Milano in un intervallo temporale di dieci anni è stimabile al massimo intorno a 1.450.000
abitanti/vani, corrispondente a un incremento massimo di 140.000
nuove unità abitative.
È legittimo chiedersi per chi sono pensati questi massicci interventi
edilizi. Sostanzialmente i grandi quartieri, che dovrebbero sorgere un
po’ dovunque nella città, sono per una popolazione ricca, molto
ricca, del tipo di quella che dovrebbe abitare nel lussuoso quartiere
Fiera nei piani alti, molto alti di City Life o in quelli ancora più esclusivi di Garibaldi Repubblica, dove la sola visita virtuale, si è letto sui
quotidiani, dovrebbe costare diverse migliaia di euro.
Grazie alla battaglia delle opposizioni, si è ottenuto che il 5% di alcune aree di trasformazione sia destinato certamente a edilizia sociale.
Ma rispetto al fabbisogno reale di case a basso costo è poco più di una
goccia nel mare.
Non è accettabile poi, anche concettualmente, delegare solo al privato, anche attraverso indici premiali, la costruzione di edilizia rivolta alle fasce sociali più deboli e, nel contempo, trascurare il recupero dei quartieri popolari esistenti e fortemente degradati.
Entrambi i temi dovrebbero essere intesi come un servizio pubblico
indispensabile, da pianificare con grande attenzione.
Il PGT avrebbe dovuto prevedere, per rispondere alla domanda reale
di abitazioni, in tutti gli Ambiti di Trasformazione, con destinazione
residenziale, quote di edilizia libera non superiori al 30% e quote del
35% di edilizia convenzionata e ancora del 35% di edilizia sociale.
Per quanto concerne l’edilizia convenzionata, almeno la metà degli
alloggi dovrebbe essere messa in affitto, al fine di invertire la tendenza attuale che ha notevolmente diminuito la componente dell’affitto
a favore dell’acquisto di proprietà.
Per quanto riguarda l’edilizia sociale, occorre prevedere una parte di
edilizia sovvenzionata, finanziata dal pubblico, e una parte di alloggi
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a canone sociale, realizzati dai privati, in modo da rispondere adeguatamente anche alla domanda reale nel suo complesso, tenendo
conto anche di quella proveniente dagli studenti fuori sede.
Ma non è unicamente il tema dell’abitare a connotare in modo privatistico i contenuti del piano di governo del territorio, che per sua
natura dovrebbe, al contrario, tenere dritta la barra dell’interesse
pubblico e collettivo.
Sulla mobilità e i trasporti i provvedimenti previsti dal piano e da strumenti collaterali, come il piano del traffico, sposano in pieno l’idea
di favorire gli spostamenti veicolari privati, come l’assurda Gronda
Nord e l’insensato tunnel sotterraneo da Molino Dorino a Linate.
Il PGT prevede il completamento e la realizzazione della strada interquartiere meglio conosciuta come Gronda Nord. Nonostante le ripetute bocciature da parte di organi di controllo dello stato e della UE,
di un progetto formalmente nato come sommatoria di singoli interventi viabilistici zonali, ma in realtà grande e assai discutibile progetto di scala metropolitana.
La gronda Nord assomma in sé, cosi come proposta dal PGT, una serie
di gravi difetti come la confusione e la sommatoria dei flussi (spostamenti con origine e destinazione di quartiere, cittadini, provinciali,
regionali e nazionali/internazionali), la distruzione di parchi e giardini come quello “delle favole”, l’infittirsi del traffico in corrispondenza delle diverse decine di intersezioni a raso con la rete viabilistica
consolidata della città e anche la frattura causata all’identità e all’integrità di borghi e quartieri storici.
Si porrebbe, al contrario, l’esigenza di garantire il collegamento est –
ovest trasversale rispetto all’impianto radiocentrico tipico della città di
Milano, attraverso una linea di forza su ferro e in sede protetta immersa in un parco lineare e costeggiata da una pista ciclabile. Esiste un preciso progetto alternativo che sarebbe in grado di imprimere una svolta
rispetto allo schema degli spostamenti casa lavoro studio a Milano,
mentre a scala locale si potrebbe provvedere con interventi semplici di
razionalizzazione della rete viaria esistente, salvando i parchi e favorendo il recupero delle identità locali dei vecchi quartieri. Così la creazione di un costosissimo tunnel interrato dall’area dell’Expo sino a
Forlanini (aeroporto di Linate) appare ingiustificato e controproducente agli effetti della riduzione dell’uso dei veicoli privati a favore del
mezzo pubblico. E non rassicura del tutto che l’opposizione ne abbia
ottenuto, fortunatamente, lo stralcio dal PGT, vista l’intenzione
dell’Amministrazione di riproporlo nel Piano della Mobilità.
La città di Milano e la sua area metropolitana necessitano, invece, di
provvedimenti di moderazione del traffico e di limitazione dell’uso
degli autoveicoli quali:
쐌 la chiusura del centro storico esteso alle Mura Spagnole, con l’eccezione dei residenti e di un ben regolamentato carico e scarico
delle merci;
쐌 l’incentivazione dell’uso di mezzi alternativi, in particolare le biciclette attraverso la formazione di nuove piste ciclabili come quella lungo il tracciato della Gronda Nord da trasformare in parco
lineare o quella lungo il ritrovato sistema dei Navigli;
쐌 la formazione di aree pedonali;
쐌 la protezione delle principali linee del trasporto pubblico;
쐌 la previsione di linee di metropolitana con origine e destinazione
oltre i confini comunali, nell’area provinciale.
Un ulteriore intervento importante in questo senso può essere la
creazione di un servizio di trasporto pubblico circolare attorno alla
metropoli e quindi sostanzialmente corrispondente ai tracciati dei
sistemi delle tangenziali in grado di intercettare i tre assi portanti
del sistema ferroviario (Milano – Treviglio, San Donato – Paullo,
Rogoredo – Lodi).
Ma il prevalere di una visione privatistica del Piano emerge anche in
modo forte dal modo in cui è stato applicato il principio della perequazione. Milano e il suo territorio sono stati considerati un unico
enorme campo di applicazione di commerci virtuali di diritti immobiliari, tra l’altro destinati a interessare il solito giro di immobiliaristi
proprietari delle aree del Parco Sud (il cui territorio è tutto inserito
nel processo perequativo e quindi paradossalmente produttore non di
generi alimentari ma di cemento.)
Anche qui la battaglia condotta dalle opposizioni ha consentito di
ridurre significativamente l’indice virtuale generato dal Parco sud,
ma resta il peso determinante che questa vera e propria riserva di
diritti immobiliari ha nella formazione di quello spropositato tetto
insediativo di quasi 1.800.000 abitanti di cui si parlava all’inizio.
Inoltre, non vi è affatto la sicurezza che parte di questi volumi virtuali non si riversino su aree comprese nel parco Sud.
Il ricorso all’articolo 11 della Legge Regionale 11 marzo 2005 n. 12 che
riguarda i meccanismi di perequazione e compensazione andrebbe
limitato nella città di Milano e nel suo PGT, esclusivamente per garantire un incremento consistente delle aree a servizi pubblici e, nel
contempo, per limitare l’eccessiva crescita di volumetrie edificabili.
Un capitolo a parte è costituito dalla vicenda Expo 2015, ricompresa
quasi marginalmente nel PGT: nulla viene fatto per inserire l’evento in
una logica di area Metropolitana. Anzi, l’isolamento dell’area prescelta
al confine tra Milano e la Fiera di Rho Pero e gli enormi ritardi rischiano
di vanificare i contenuti del tema (nutrire il pianeta, energie per la vita):
da un lato si comprimono in una sola area tutte le simulazioni di coltivazioni di tutto il mondo, dall’altro si intacca la sostanza stessa del territorio agricolo consumando suolo invece di riusare le moltissime strutture abbandonate o sottoutilizzate di Milano, comprese quelle della
medesima fiera limitrofa. Non si sa neppure se le aree dopo l’evento
saranno restituite almeno ad un uso pubblico se non a quello agricolo.
L’amministrazione Moratti ha voluto a tutti i costi giungere all’adozione di un piano sbagliato e criticato da ambienti scientifici, di
ricerca ed anche dall’Ordine degli Architetti, entro il proprio mandato elettorale.
Chi si candida oggi a guidare la città deve essere estraneo a questo
Progetto e contrastarlo, già adesso che si apre la battaglia delle osservazioni, con un progetto per Milano alternativo.
La valorizzazione di Milano e della sua area urbana, anche rispetto alle
scadenze internazionali come Expo 2015, può essere affidata a vari
interventi, a condizione che essi contribuiscano a migliorare la percezione delle caratteristiche fondamentali (storiche, monumentali,
ambientali) della città e che, soprattutto, lascino un’eredità positiva
e utile alla città anche dopo la conclusione dei grandi eventi.
Occorre una visione produttiva per la città, completamente trascurata dal PGT, che veda protagoniste le nuove generazioni con la sperimentazione di nuove forme di lavoro come i generatori di impresa,
la ricerca scientifica, il rilancio dell’industria collegata al settore
sanitario, farmaceutico e alla trasformazione dei prodotti agricoli.
Per quanto riguarda il tema dell’acqua, Milano non ha più grandi fiumi
che la attraversano, fatta eccezione forse per il fiume Lambro.
Uno scopo importante che il PGT può perseguire è quello di riscoprire e ritrovare gli storici tracciati dei Navigli milanesi che ci riportano
alla dimensione più nobile e alla tradizione più importante della città,
quella delle grandi opere utilitaristiche (i canali e i sistemi irrigui) che
hanno caratterizzato un’importantissima pagina della storia d’Italia,
con la presenza e l’opera di Leonardo da Vinci.
Una proposta alternativa per Milano esiste nella sostanza.
Milano ha bisogno di un vero nuovo piano, o meglio di un processo di
piano capace di delineare un futuro per la città e i suoi abitanti.
ANTONELLO BOATTI
Architetto, libero professionista e docente universitario di ruolo II
fascia (Professore Associato di Urbanistica alla Facoltà di
Architettura e Società del Politecnico di Milano, oltre che membro
del Collegio Docenti del Dottorato di Progettazione Paesistica
dell’Università degli Studi di Firenze). È inoltre componente della
Commissione Provinciale dei Beni Paesaggistici di Milano.
Ha orientato da tempo studi e ricerche nel campo della tutela e
della promozione dei valori ambientali della città. Ha pubblicato
tra l’altro i libri “Un secolo di urbanistica a Milano”, 1986; “Verde
e metropoli. Milano e l’Europa”, 1991; “Ripensare l’urbanistica”,
1992; “Parchi e protezione del territorio, 1995, “L’urbanistica tra
piano e progetto”, 2001 e “Urbanistica a Milano - Sviluppo urbano, pianificazione e ambiente tra passato e futuro”, 2007.
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Il sistema aeroportuale
Spazio Aperto
di Paolo Malighetti, Stefano Paleari e Renato Redondi
Lo scorso 28 giugno è stato presentato
a Milano l’annuale studio realizzato
da ICCSAI (International Center for
Competitiveness Studies in the Aviation
Industry) sulla competitività del trasporto
aereo in Europa e in Italia (Fact Book
2010). Lo studio ha mostrato come il settore del trasporto aereo abbia subito in
modo particolare gli effetti della recessione mondiale che ha caratterizzato il 2009.
La crisi economica ha accelerato i processi di risanamento e razionalizzazione,
soprattutto attraverso una maggiore integrazione tra le compagnie aeree a tutti i
livelli. Protagonista del mercato in Europa
è Lufthansa che ha completato l’acquisizione di Austrian Air, BMI e di SN Brussel,
divenendo il primo gruppo in Europa per
numero di passeggeri. A ciò si aggiunge la
finalizzazione della fusione tra British
Airways e Iberia avvenuta a fine 2009. In
Italia, non va dimenticata la fusione delle
due principali compagnie aeree sul mercato domestico, Alitalia e Airone.
Nel 2009 il mercato italiano limita il calo
nel volume di passeggeri trasportati al
2,5%, contro un calo medio negli aeroporti europei pari al 6%. I dati del primo
semestre del 2010 mostrano chiaramente
come l’Italia esca da questo periodo di
recessione con volumi e tassi tendenziali
di crescita più elevati di altri Paesi
dopo la crisi
Europei. In termini di passeggeri, nel
primo semestre del 2010 si è assistito ad
un incremento del 5%, rispetto al primo
semestre del 2009. Quest’ottimo risultato
è stato ottenuto nonostante la forte contrazione avvenuta ad Aprile del 2010 a
causa dell’eruzione del vulcano islandese
e del consequenziale blocco generalizzato
di tutti i voli, specialmente dagli aeroporti del Nord Italia. In questo senso, il settore del trasporto aereo si configura come
un preciso indicatore di ciclo, molto più
sensibile ai mutamenti economici rispetto
ai più tradizionali indicatori basati sulla
produzione industriale o sui risultati economici delle imprese.
L’Italia vede riallineati per la prima volta
nel 2009-2010 i propri livelli di propensione
al volo (misurati come numero di passeggeri sul totale della popolazione residente)
a quelli di Francia e Germania, con circa 2
voli all’anno per abitante. Il dato italiano
rimane comunque inferiore a quello degli
altri Paesi europei parimenti peninsulari o
geograficamente periferici, come ad esempio la Spagna. Per l’Italia si segnala, inoltre, una minor propensione al volo soprattutto in riferimento ai voli intercontinentali diretti, come effetto della mancanza di
un grande hub intercontinentale analogo a
Parigi Charles de Gaulle, Londra Heathrow
o Francoforte. Dal punto di vista del pas-
Il mercato del trasporto
aereo in Italia sembra essere
finalmente uscito dalla crisi
economica con uno slancio
superiore a quello di molti
altri mercati Europei, sebbene con alcune preoccupazioni e problematiche di
fondo tuttora irrisolte. Una
delle più evidenti riguarda
la capacità del sistema aeroportuale italiano.
seggero, la bassa offerta di voli intercontinentali diretti continua a rappresentare
senza dubbio la maggiore carenza dell’offerta di voli dagli aeroporti italiani.
I buoni risultati del mercato italiano sono
stati conseguiti soprattutto grazie all’ulteriore sviluppo dei vettori low-cost, specialmente Ryanair e easyJet. Basti pensare che, in termini di passeggeri trasportati
su rotte domestiche, il vettore irlandese in
un solo anno ha visto raddoppiare la propria quota dal 4,3% al 9,7%. La quota di
mercato di easyJet sul mercato domestico
italiano è invece più che raddoppiata, passando dal 2,7% al 6,9%. Il maggiore vettore sui voli domestici resta Alitalia che, grazie alla fusione con Airone, possiede una
quota di oltre il 60%. Se si considerano,
invece, tutti i voli in partenza dagli aeroporti italiani, la quota complessiva dei
vettori low-cost ha raggiunto nel 2009
oltre il 45%, segnalando la dominanza del
mercato low-cost specialmente sui collegamenti europei. Il forte sviluppo dei vettori low-cost, in un momento di recessione
economica, è stato favorito dalla strategia
di prezzo particolarmente aggressiva di
questi vettori che hanno ulteriormente
ridotto in maniera sensibile le proprie
tariffe rispetto agli anni precedenti.
Con riferimento ai risultati degli aeroporti
italiani, ben 21 scali mostrano nel 2009 una
riduzione del numero di passeggeri, tra cui i
due hub di Roma Fiumicino (-4,3%) e Milano
Malpensa (-8,7%). A tale proposito, quasi
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tutti gli scali di medie dimensioni a vocazione non tipicamente low
cost hanno registrato una contrazione dei volumi. Venezia, rispetto
al 2008, torna leggermente sotto la quota dei 7 milioni di passeggeri consentendo a Bergamo di salire al 4° posto. Per quanto attiene
la distribuzione geografica, nel corso del 2009, è diminuita di un
punto percentuale la quota di traffico in partenza dal Nord Italia e
dal centro, mentre migliora la quota relativa del Sud e delle Isole.
In generale, gli scali che hanno registrato una crescita del numero
di passeggeri sono quelli in cui la penetrazione dei vettori low-cost
è risultata più elevata.
Molto più negativo è, invece, l’andamento del traffico merci che nel
2009 è calato in Italia del 15%, contro una contrazione del 12,3% a
livello europeo. L’andamento annuale mostra come nel 2009 tutte e
tre le aree geografiche (Nord, Centro, Sud e Isole) abbiano registrato cali in doppia cifra. Se si considerano i risultati degli ultimi 5
anni, gli aeroporti dell’Italia meridionale sono stati colpiti da un
trend fortemente negativo, costantemente caratterizzato da una
contrazione del traffico merci per tutto il periodo in esame (in ogni
anno il traffico è calato in media del 7,0%). L’Italia è tornata sui
livelli di traffico di quasi 10 anni fa, solo parzialmente compensati
dai primi positivi mesi del 2010. Appare una debolezza strutturale
del sistema Paese sul traffico merci che richiede riflessioni adeguate che consentano al Nord di riprendere i tassi di crescita pre-crisi,
ed al Centro-Sud di migliorare progressivamente la propria capacità attrattiva.
Nel corso dell’anno è continuata la discussione in merito alla necessità degli aeroporti di stipulare i contratti di programma e di attivare gli investimenti in infrastrutture aeroportuali. Al fine di sbloccare lo stallo che ha caratterizzato la regolazione delle tariffe aeroportuali dal 2000 ad oggi, nella manovra finanziaria del 2009 è stata
prevista la possibilità ancora non effettiva di anticipare in tariffa un
aumento sino a 3€/passeggero per favorire il rilancio degli investimenti aeroportuali. Nel 2009 il livello medio delle tariffe applicate
dai principali scali di Fiumicino e Malpensa è risultato inferiore alla
media delle tariffe dei primi 25 aeroporti europei di quasi il 30%.
Una delle variabili più importanti per descrivere il rapporto di forza
tra le compagnie aeree e gli aeroporti è il grado di “dipendenza”
degli aeroporti, definito come la percentuale dei passeggeri trasportati dal maggiore vettore. In generale, un’elevata dipendenza
da una sola compagnia fotografa una situazione di maggior rischio
in capo all’aeroporto.
Da questo punto di vista l’aeroporto di Milano Malpensa mostra un
basso livello di dipendenza dalle maggiori compagnie. Nel 2009, la
percentuale dell’offerta della prima compagnia, il gruppo Alitalia,
è infatti del solo 15%, con easyJet che è il secondo operatore dello
scalo milanese con una quota dell’11,4%.
A causa dell’effetto congiunto della sempre maggiore concentrazione dei vettori e dell’ulteriore sviluppo dell’offerta low-cost, in
molti aeroporti italiani il grado di dipendenza dalle maggiori compagnie è aumentato in maniera significativa.
Si sottolinea, ad esempio, la dominanza da parte della compagnia
low cost Ryanair, negli aeroporti di Bergamo Orio al Serio e di Pisa,
con percentuali dell’offerta pari rispettivamente al 76,2% e al
55,5%. Nel corso del 2009, gli operatori low-cost hanno rafforzato in
maniera significativa la propria presenza nelle rispettive basi,
soprattutto per effetto della crisi economica che ha penalizzato
ulteriormente i vettori tradizionali. Interessante sottolineare anche
la situazione dell’aeroporto milanese di Linate dove, se si considera l’offerta congiunta del gruppo Alitalia, la percentuale dell’offerta è quasi del 60%. Lo stesso gruppo Alitalia ha una percentuale
significativa dell’offerta (>40%) in molti altri aeroporti come
Genova, Brindisi, Olbia, Lamezia Terme, Trieste e Reggio Calabria,
oltre che Roma Fiumicino.
Tali tendenze rischiano di cambiare i rapporti tra compagnie aeree
sempre più grandi e aeroporti con dimensioni economiche molto
inferiori il cui traffico dipende spesso dalle politiche di un solo vettore. È auspicabile che la regolazione degli aeroporti tenga nella
dovuta considerazione queste mutazioni dei rapporti di forza all’interno del settore.
In sintesi, il mercato del trasporto aereo in Italia sembra essere
finalmente uscito dalla crisi economica con uno slancio superiore a
quello di molti altri mercati Europei, sebbene con alcune preoccupazioni e problematiche di fondo tuttora irrisolte. Una delle più evidenti riguarda la capacità del sistema aeroportuale italiano. La crisi
del 2009, venuta dopo quasi un decennio di costante crescita del
volume di passeggeri trasportati, ha ridotto la pressione sul lato dell’adeguamento delle strutture aeroportuali. Tuttavia, le più recenti
previsioni di crescita al 2020 per l’Italia, anche negli scenari meno
favorevoli, vedono un incremento di traffico compreso tra il 30% e
40% rispetto ai livelli del 2009.
Affinché il mercato italiano sia pronto a sfruttare appieno questa
grande potenzialità di crescita, è necessario facilitare il reperimento di risorse finanziarie per gli investimenti e adeguare di conseguenza la regolazione aeroportuale. Solo così si potrà garantire lo
sviluppo del settore non solo in termini quantitativi, ma anche
rispettando standard minimi di servizio ai passeggeri.
PAOLO MALIGHETTI
Ricercatore in “Air Transport management” all’Università degli Studi
di Bergamo. Ho ottenuto il dottorato di ricerca in “Technology management” presso l’Università degli Studi di Bergamo. Ha sostenuto un
periodo di Visiting presso l’Air Transport Department alla Cranfield
University. Collabora con ICCSAI nella stesura del fact book e nell’analisi della regolazione tariffe aeroportuali.
STEFANO PALEARI
Rettore dell’Università degli Studi di Bergamo nella quale ricopre il
ruolo di Professore Ordinario di Economia ed Organizzazione
Aziendale. Direttore scientifico di ICCSAI. Esaminatore esterno per il
Master in “Air Transport Management” del dipartimento di Air
Transport della Cranfield University, UK. Airneth Academic Fellow e
membro del comitato scientifico del centro di ricerca Airneth,
Olanda.
RENATO REDONDI
Professore associato presso la facoltà di Ingegneria dell’Università
degli Studi di Brescia. Ho ottenuto il dottorato di ricerca in Ingegneria
Gestionale presso in Politecnico di Milano. Direttore del comitato
scientifico di ICCSAI, di cui cura la redazione dell’annuale fact book
sul trasporto aereo in Europa.
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La Tangenziale Est Esterna
di Milano
Spazio Aperto
di Fabio Terragni
La progettazione delle infrastrutture come
occasione di sviluppo, flessibili e compatibili con il territorio, è la sfida ottimale in
una visione di sistema che tenga conto di
una pluralità di fattori: infrastrutturali,
industriali, ambientali.
La Tangenziale Est Esterna di Milano è una bretella autostradale
di 32 chilometri destinata a collegare l’A1, all’altezza del casello di Melegnano, all’A4, all’altezza di Caponago/Cambiago. La
nuova Autostrada metterà in relazione tra loro importantissime
arterie di collegamento tra Milano e l’est milanese come la
Padana Superiore, la Cassanese, la Rivoltana, la Paullese e la Via
Emilia. Inoltre, l’infrastruttura metterà in diretta connessione tra
loro centri importanti dell’est milanese come Agrate,
Gorgonzola, Melzo, Paullo e Melegnano (permettendo lo scambio
intermodale con le metropolitane 2 a Gorgonzola e 3 nella futura stazione di Paullo, oltre all’interconnessione con le linee ferroviarie Milano-Venezia a Melzo e Milano-Bologna a Melegnano) e,
soprattutto, rappresenterà la gronda di distribuzione del traffico
in ingresso e in uscita dalla Brebemi, la nuova autostrada di collegamento tra Milano, Bergamo e Brescia. Sono, inoltre, previsti
sei svincoli/caselli (Pessano con Bornago, Gessate, Pozzuolo
Martesana, Paullo, Vizzolo Predabissi e Liscate). Sarà un’autostrada a pedaggio con tre corsie per senso di marcia e sarà percorsa
da un traffico medio giornaliero stimato in circa 75.000 veicoli.
Per la realizzazione della stessa è necessario un investimento di
1.578 milioni di Euro. Si opererà attraverso la logica della “finanza
di progetto”, senza alcun esborso di soldi pubblici, in quanto le
risorse finanziarie necessarie saranno garantite interamente dai privati. Toccherà a Tangenziale Esterna SPA, la Società Concessionaria,
ricercare sul mercato i capitali per realizzare l’opera.
Per definire non solo le condizioni di condivisione dell’opera
autostradale ma anche gli interventi generali di miglioramento
della mobilità nel territorio interessato, la Regione Lombardia ha
promosso un “Accordo di Programma” che è stato siglato il 5
novembre 2007 ed ha avuto come primi esiti l’inserimento a carico
del futuro concessionario degli oneri relativi alla progettazione e
realizzazione del sistema di mobilità complementare (circa 30 Km,
quasi quanto i 34 Km del tracciato dell’Autostrada),
il rafforzamento delle connessioni e dei nodi di scambio con
l’attuale linea 2 della Metropolitana; l’accordo per promuovere
(non a carico del concessionario) il prolungamento della MM2 da
Cologno a Vimercate e la MM3 da San Donato a Paullo.
Grazie ai risultati raggiunti nell’ambito dell’Accordo di
Programma, dopo anni di trattative relative alla localizzazione
della nuova Tangenziale Esterna – opera peraltro inserita nella
Legge Obiettivo e passata nelle competenze del nuovo soggetto
concedente regionale CAL (Concessioni Autostradali Lombarde,
costituito pariteticamente da Regione Lombardia tramite
Infrastrutture Lombarde e ANAS) - finalmente tutti i soggetti
istituzionali coinvolti concordano sul progetto.
Entro la fine del 2010 sarà completato il Progetto Definitivo,
saranno portati a termine tutti i passaggi autorizzativi e nel 2011
saranno avviati i lavori. Entro il 2015 entrerà in funzione l’intera
tratta, ma già nel 2013 sarà terminato e portato in esercizio il
cosiddetto Arco TEEM, ossia la parte centrale dell’autostrada,
necessaria per mettere in collegamento Brebemi con le due principali strade provinciali (S.P. 14 “Rivoltana” e S.P. 103
“Cassanese”) che entrano in città. La nuova infrastruttura si inserisce, quindi, in un quadro più ampio di potenziamento della
grande viabilità di Milano e della Lombardia, con progetti ormai
definiti e finanziati e prossimi all’effettiva realizzazione, come
Brebemi, Pedemontana e il completamento della Rho-Monza.
Da tanti anni il sistema delle relazioni (e quindi degli spostamenti) nella regione milanese è molto cambiato, almeno a partire
dalla fine degli anni’70. Oggi le fasce orarie dette “di punta” si
sono molto dilatate. Capita di frequente a tutti noi di muoverci
più volte nell’arco di una sola giornata e in diverse direzioni, sempre più spesso verso destinazioni che una volta sarebbero state
considerate “non centrali”. E così capita alle merci, che si spostano di fabbrica in fabbrica, di centro logistico in centro di
distribuzione, senza necessariamente dover finire nel ”centro
città”. Basti pensare che circa il 60% dei container che entrano
ogni giorno in Lombardia gravitano sulle tangenziali di Milano; se
venissero messi in fila uno dietro l’altro arriverebbero ad una lunghezza di 30 km.
1.476 imprese, 6,8 miliardi di euro di fatturato, un terzo del totale italiano di settore, e 93 milioni di tonnellate di merci movimentate all’anno: sono alcuni dei numeri della logistica della
regione milanese, concentrata soprattutto nell’est Milano. Da una
ricerca della Camera di Commercio, emerge l’attuale preferenza
per il trasporto su strada, più flessibile, affidabile e meno costoso di quello ferroviario, con il 48% dei flussi logistici internazionali scambiati dalla rete milanese.
Inoltre, il passaggio da un sistema delle relazioni dotato di un
forte centro attrattore a un sistema reticolare e diffuso sul territorio implica una conseguente ristrutturazione dei sistemi di trasporto e delle infrastrutture viarie e autostradali, che permetta
di non dover passare dalla città di Milano, una strozzatura dannosa in termini di congestione del traffico, tempo sprecato e inquinamento (per non parlare dello stress accumulato).
Lungo il tracciato della Tangenziale Esterna sono presenti moltissime imprese e altrettante stanno spostando le loro sedi principali proprio in virtù dei vantaggi che saranno offerti da questa infrastruttura. È noto che il territorio ad Est della Provincia di Milano
abbia assunto una vocazione non programmata come quella di
area elettiva per il settore della logistica. Numerose sono le
aziende logistiche che operano in questa zona con picchi di concentrazione nei Comuni di Melzo e Gorgonzola. Il progetto della
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Spazio Aperto
PEDEMONTANA LOMBARDA
(fine lavori 2015)
A51
A4
Agrate
Brianza
Cambiago
Caponago
A4
Pozzuolo
Martesana
VIA PADANA SUPERIORE
BREBEMI
SP CASSANESE
(fine lavori 2013)
SP RIVOLTANA
LINATE
S P A Z I O
A P E R T O
SP PAULLESE
30
DHL costruisce l’eco-hub
A1
Melegnano
Cerro
al Lambro
nuova Autostrada è probabilmente destinato a rinforzare tale
tendenza. Quindi, anche una infrastruttura come occasione di sviluppo, flessibile all’insediamento della logistica e tesa ad uno
sforzo di compatibilità con il territorio. L’esempio più eclatante è
quello del nuovo centro logistico del gruppo DHL che sorgerà a
Pozzuolo Martesana e il cui progetto è stato presentato ufficialmente il 30 giugno scorso. L’insediamento sarà ubicato proprio
nell’area strategica all’incrocio tra le due nuove grandi arterie
regionali in fase di realizzazione: Brebemi e TEEM. Quest’ultima
avrà un’uscita proprio a Pozzuolo Martesana, per cui i mezzi
potranno raggiungere il nuovo polo DHL direttamente dall’autostrada, senza congestionare il traffico locale.
FABIO TERRAGNI
Attivo da diversi anni nel settore delle infrastrutture autostradali
come Presidente e Amministratore Delegato di Autostrada
Pedemontana Lombarda (2007–2009) e Presidente di TEM Tangenziali Esterne Milanesi (2008). Dall’inizio del 2009 è
Amministratore Delegato di Tangenziale Esterna SPA, società concessionaria per la progettazione, realizzazione e gestione della
Tangenziale Est Esterna di Milano.
Laureato in biologia molecolare, in precedenza si era dedicato allo
sviluppo territoriale e alle implicazioni etiche, sociali e ambientali
dell’innovazione tecnologica.
Rispetto dell’ambiente ed ecosostenibilità: queste le linee
guida per la realizzazione del nuovo centro logistico di
Pozzuolo Martesana che ospiterà gli uffici milanesi di DHL
Global Forwarding, Freight, la divisione del Gruppo DHL specializzata nella movimentazione merci via aerea, mare e terra.
Il nuovo hub, la cui costruzione è stata avviata ufficialmente il 30 giugno 2010 e che diverrà operativo da gennaio 2012,
è stato infatti progettato in modo da ridurre dell’85% le
emissioni di CO2, grazie all’utilizzo di tecnologie intelligenti
per illuminazione, energia elettrica e riscaldamento, con
sensori di movimento, centrali per la raccolta dell’acqua piovana e uso delle acque del sottosuolo per il condizionamento. “Il nostro obiettivo in questo senso”, commenta Antonio
Lodi, Vice President Real Estate DHL Global Services, “è di
arrivare al 100% della riduzione attraverso la realizzazione di
un impianto fotovoltaico, ora in fase di studio, che renderebbe il building completamente ecosostenibile a beneficio dell’intera comunità”.
La costruzione del nuovo building “Green” rappresenta
l’ideale prosecuzione della strategia del Gruppo Deutsche
Post DHL per la salvaguardia dell’ambiente e la riduzione
dell’impatto ambientale, denominata appunto “GoGreen”.
“Non solo: concentrando le attività delle divisioni Global
Forwarding e Freight in un unico hub favoriremo l’intermodalità, ridurremo la circolazione di veicoli tra gli impianti
attualmente esistenti, ottimizzeremo le operazioni di ritiro e
consegna”, dichiara Alessandro Trapolino, CEO Southern
Europe di DHL Global Forwarding.
Il nuovo hub concentrerà 500 dipendenti che gestiranno ogni
giorno circa 2.000 spedizioni cargo via aerea, mare e terra.
L’area totale coperta dalla struttura, pari a undici campi di
calcio, ospiterà inoltre un centro operativo dedicato per il
settore Fashion, dotato di un impianto automatico a sviluppo verticale per i capi appesi, un’area riservata al cross-docking di prodotti farmaceutici a temperatura controllata e un
magazzino refrigerato per i prodotti alimentari.
(Roberta Gadina)
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Istanbul 2010
Senza frontiere
Di scena la crisi economica
“La crisi va fatta pagare a chi l’ha provocata” è stato il motto di questa edizione del Forum Sociale
Europeo 2010 e la scelta di Istanbul come sede non è casuale.
Dal Forum una risposta globale, forte e decisa, all’attacco
del capitalismo liberista contro le classi sociali più deboli,
per costruire ovunque le condizioni per strategie politiche e
progetti alternativi, basati su un diverso modello economicosociale di sviluppo che metta al centro l’uomo e i suoi bisogni, la sua libertà e dignità individuale e collettiva.
della CGIL contro la manovra economica.
In questo contesto di crisi, emerge una
realtà sindacale turca che è forse agli antipodi del modello tedesco DGB, ma non
molto distante da quello che sembra profilarsi come nostro modello futuro, proposto
con forza dal governo di centro destra e
che grazie all’Accordo separato firmato da
Cisl e Uil, potrebbe divenire per noi una
realtà, in controtendenza rispetto ai principi della CES.
Mi sembra necessario sottolineare alcuni
aspetti del sindacato Turco, che mi hanno
colpito e che necessitano di soluzioni collettive attraverso il network Europa. Voglio partire dalle origini del sindacato in Turchia, in
quanto sono le reticenze del passato ad
influenzare il modello sindacale presente.
Le prime azioni dei lavoratori turchi, come
nel resto dell’Europa, iniziarono nel decen-
nio 1870-1880, i primi sindacati nacquero
dopo il 1890 ma furono repressi nel 1925. Il
primo codice del lavoro fu promulgato nel
1936, sulla base del modello francese ma
non riconosceva il diritto di associazione né
quello di contrattazione collettiva. La
prima legge sindacale del 1947 permetteva
al governo di controllare i sindacati, ma
non riconosceva il diritto di contrattazione
collettiva né quello di sciopero. Nonostante
ciò, intorno ai primi anni ’50, si contavano
circa 246 sindacati. Nel 1952 i sindacati di
vari settori si unirono nella Türkiş ad oggi la
maggiore confederazione sindacale, seguita
da Hak-iş e Disk.
La Türkiş comprende principalmente le confederazioni dei lavoratori dei Trasporti, del
settore dei servizi alberghieri e del tessile.
Concentra la sua attività su questioni fondamentali, utilizzando gli strumenti delle
S E N Z A
Dal 28 giugno al 4 luglio 2010 un gruppo di
giovani delegati della Cgil Lombardia sono
stati protagonisti di un importante appuntamento, frutto dell’11˚ Congresso della
Confederazione Europea dei Sindacati.
La CES, nel Congresso del 2007 a Siviglia, ha
votato a favore dell’adesione della Turchia
all’Unione Europea a condizione che essa
soddisfi, nella realtà e non sulla carta, i
requisiti di adesione e le disposizioni della
Carta fondamentale dei diritti Europei. In
base a ciò la Ces e le sue organizzazioni
affiliate in Turchia e nell’UE, tra queste la
Cgil, hanno deciso di accelerare la cooperazione attraverso un progetto ambizioso
denominato “Civil Society Dialogue:
Bringing together workers from Turkey and
the Eu through a shared culture of work”.
Tale progetto ha previsto due giornate seminariali preparatorie all’apertura del Social
Forum Europeo, che hanno visto a confronto
i 4 motori d’Europa: il Baden-Wüttenberg,
Rhone-Alpes, la Catalogna e la Lombardia su
3 temi sindacali importanti come i green
job, l’organizing e la precarietà.
Grande protagonista e cerimoniere del progetto il Koop-is, sindacato turco di categoria del commercio, degli uffici, dell’educazione e delle arti.
Lo svolgimento dei seminari, in maniera
informale e attraverso il metodo della comparazione e della messa in luce delle proprie
esperienze personali, ha contribuito ad
arricchire i contenuti, superando le barriere
culturali e linguistiche. Il concreto scambio
di esperienze è stato reso possibile soprattutto affrontando temi caldi del mondo sindacale e che accomunano tutti come la crisi.
Crisi che ha scosso le coscienze di molti lavoratori e dei sindacati europei.
Un’ondata di scioperi, proteste e manifestazioni si è estesa in tutta Europa nel corso
del 2010. Per citarne alcuni: 8 giugno in
Danimarca manifestazione contro i tagli del
governo; in Francia il 3 marzo sciopero
nazionale; in Germania il 3 Febbraio sciopero del settore pubblico; in Portogallo il 4
marzo sciopero generale del settore pubblico contro il congelamento dei salari; in
Italia lo sciopero generale del 25 giugno
F R O N T I E R E
di Sara Tripodi, Dipartimento Mobilità Filt-Cgil Lombardia
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S E N Z A
F R O N T I E R E
Senza frontiere
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lobby e della negoziazione. La storia sindacale turca è caratterizzata da numerosi
colpi di stato che hanno in più cicli bandito
le organizzazioni sindacali. L’ultimo, del
1980, ha portato a riscrivere le leggi sindacali, alla cancellazione di alcuni sindacati e
alla sopravvivenza di altri costretti a un
limitato raggio di attività. La nuova politica
di governo è improntata sulla privatizzazione e sulla liberalizzazione, in un contesto
culturale di bassa coscienza dei propri diritti, di aumento del lavoro nero e minorile.
In una situazione in cui è stabilito “in teoria” il diritto a costituire sindacati dei lavoratori, ma dove in pratica il diritto a manifestare, a iscriversi ad un sindacato
possono essere limitati per legge per
motivi di sicurezza nazionale, come si
può parlare di sindacato secondo il
significato comunemente attribuito?
Dirò di più: nel settore pubblico è
stata introdotta nel 2001 una nuova
normativa che, di fatto, impedisce lo
sciopero, altro che la nostra 146/90!
Il tesseramento rappresenta un iter
complesso e che diventa ancora più
difficile se si è dipendente pubblico
(al contrario che in Italia). Per tesserarsi un lavoratore del settore turco
deve recarsi da un notaio per autenticare 5 copie del modulo di domanda,
che poi è trasmesso al sindacato.
Occorre anche inviare una copia del
modulo al Ministero del Lavoro e della
Sicurezza sociale.
La contrattazione collettiva non è
riconosciuta per legge. La sua forma
più comune, nel settore privato, è
quella d’impresa. Un sindacato deve
aver raggiunto un livello di adesione di
almeno il 10% nel settore industriale
interessato e almeno il 50% (+1) sul
posto di lavoro per poter avviare un
processo molto complicato e burocratico di contrattazione collettiva. Nel
settore pubblico non esiste un diritto
di contrattazione collettiva in quanto
tale, ma un processo che può portare a “un
testo di accordo”che viene trasmesso al
Consiglio dei Ministri e che approva i regolamenti più appropriati.
Per quanto riguarda gli scioperi, essi sono
illegali in un gran numero di industrie: per le
centrali elettriche, di carbone, gas, nel settore bancario e per i notai. Inoltre, sono illegali in tutte le istituzioni sanitarie, scolastiche e di formazione. Anche nei settori dove
lo sciopero è previsto e con le procedure
rispettate alla lettera può accadere che lo
sciopero sia rinviato per volontà del consiglio
dei Ministri perché ritenuto di minaccia alla
pubblica sicurezza. Aspetto che mi ricorda i
rinvii arbitrari dello sciopero sul contratto
della Mobilità in Italia.
In questo contesto e con queste premesse,
un mondo migliore è possibile? Crediamo di sì
grazie allo sforzo della Ces di dare voce alle
problematiche del lavoro ed al confronto
aperto. Come dice la campagna dei workshop
“bisogna andare al contrattacco: attraverso
un’Europa sociale, solidale e sostenibile.”
Il Social Forum preme per un rafforzamento delle reti tra movimenti locali con
un’esplicita apertura ai paesi che confinano
con il vecchio continente e che pagano le
conseguenze delle sue politiche economiche.
“Make them pay for their crisis”, “La crisi
va fatta pagare a chi l’ha provocata” è
stato il motto di questa edizione del SFE e
la scelta di Istanbul come sede non è casuale. Era stata già avanzata, anni fa, con il
proposito di allargare il confronto anche ai
paesi di destinazione delle delocalizzazioni
europee. La Turchia è da questo punto di
vista un laboratorio. Qui, solo per citare i
casi di due noti marchi italiani, opera il settore automobilistico con la FIAT e l’alta
moda con Prada, i cui capi sono prodotti
dall’azienda locale Desa in tre stabilimenti
che si trovano proprio nei dintorni di
Istanbul. I lavoratori della Desa hanno
dovuto da tempo subire l’accettazione di
un pacchetto stile Pomigliano che prevede
molto lavoro, poche tutele e paghe ridotte.
Contro la compressione dei propri diritti i
lavoratori turchi hanno lanciato una campagna internazionale invitando i lavoratori e i
sindacati europei alla stesura di una piattaforma comune. Per fare in modo che non
siano i lavoratori a pagare la crisi c’è bisogno di allargare le singole vertenze ad una
contrattazione che superi i confini nazionali e quelli europei.
Così come Istanbul è il crocevia dei continenti europeo ed asiatico, il SFE di Istanbul ha
costruito un ponte ideale e materiale, tra le
lotte politiche e sociali d’Europa e di Medio
Oriente, Paesi balcanici, Caucaso e Africa del
Nord che tenteranno di fare rete nella consapevolezza che i problemi dello sviluppo e
delle crisi accomunano tutti i paesi dell’area,
come i fatti si incaricano ogni giorno di testimoniare e di dimostrare.
L’obiettivo del SFE di Istanbul è stato in
definitiva quello di costituire un laboratorio di idee, un momento di scambio
di esperienze, elaborazione di progetti
e piani convergenti. Un obiettivo che
rappresenti una risposta globale forte e
decisa all‘attacco del capitalismo liberista, e dei governi che ad esso si ispirano, contro le classi sociali più deboli,
per costruire ovunque le condizioni per
strategie
politiche
e
progetti alternativi, basati su un diverso
modello economico-sociale di sviluppo,
che metta al centro l’uomo e i suoi
bisogni, la sua libertà effettiva (non
solo formale e giuridica) e la sua dignità individuale e collettiva, e non invece il profitto del capitale.
I 250 seminari, che si sono susseguiti
nelle 4 giornate del Social Forum, si
sono concluse con il corteo del 4 luglio,
manifestazione di oltre cinquemila persone, conclusosi a piazza Taksim, nel
centro di Istanbul. Significativa la partecipazione sindacale – nei seminari e
workshop del forum, come alla manifestazione conclusiva - a partire dalle
confederazioni turche, Disk, Turk-is,
Hak-is, Kesk e con le vistose presenze
dei belgi di FGTB e CSC, di IGMetall e
Ver.di tedeschi, di CGT e FSU Francia e
Comisiones Obreras spagnole e nostra, della
CGIL. Importante la presenza della società
civile della Turchia e in particolare dei partiti e delle associazioni Curde, a partire dall’organizzazione delle donne.
Questo è solo l’inizio della mobilitazione; la
stessa CES ha organizzato una risposta collettiva alle scelte dell’Unione Europea e
degli stati membri, che culminerà con una
grande manifestazione a Bruxelles il 29 settembre. La Ces sosterrà anche la giornata
mondiale per il lavoro dignitoso indetta
dalla CSI per il 7 ottobre 2010.
L’esperienza turca ha arricchito la mia cassetta degli attrezzi, il mio zainetto della
conoscenza di nozioni che conserverò con
orgoglio ricordando che... anche il viaggio
più lungo inizia con il primo passo.
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Un passo altrove
Sguardi e traguardi
Così è stato per me e per Carmen, abbiamo reso invisibile, volatile, la nostra femminilità. Turni massacranti, impegno fisico e
mentale molto gravoso, accettato con entusiasmo e con una resistenza alla fatica e allo stress inconsuete. Perché quello del chirurgo è il più bel lavoro del mondo e per entrambe è stata una
grande passione, un grande amore. Pur di tenerlo vivo siamo state
disponibili a sacrifici enormi: le nostre rispettive famiglie non
hanno mai pesato sul lavoro, le abbiamo occultate, nessuna di noi
ha mai reclamato un giorno di permesso per la malattia di un
figlio, esattamente come per un chirurgo maschio, perché in
primo luogo eravamo chirurghi.
Non credo che per noi l’amore per i figli sia stato minore che per
altre donne, è che dovevamo/volevamo relegarlo alla sfera del
privato, per tenere fede ad una promessa implicita: vi lasciamo
entrare, ma dimenticatevi di essere donne. Una prescrizione che
è risultata ancora più chiara il giorno in cui ho dovuto annunciare al nostro direttore la mia prima gravidanza, accolta con urla e
strepiti e con queste parole: “Tu mi hai tradito”. Io avevo infranto l’implicita promessa di dimenticare di essere donna, dunque
non meritavo il privilegio che mi aveva concesso. La maternità è
costata a me e a Carmen l’esclusione dalla sala operatoria per
mesi, una sorta di espiazione.
Comunque, va detto, abbiamo abbondantemente mortificato la
nostra femminilità, ma i figli li abbiamo fatti e la famiglia l’abbiamo tenuta in piedi, la sfida l’abbiamo lanciata. E, paradossalmente, questa famiglia che ci avevano venduto come intralcio al
S G U A R D I
Questo testo nasce da un incontro sul tema del lavoro organizzato
dall’Associazione Italiana Donne Medico, sezione di Brescia, cui
hanno partecipato le associazioni femminili della Provincia.
La necessità di questo incontro emergeva dalla nostra passione
per il lavoro e dalla necessità di alcune di noi di sedare un
conflitto, di fare dei conti con il lavoro, su ciò che ci ha dato e
ciò che ci ha tolto, di interrogare alcune nostre scelte. Abbiamo
deciso di farlo a partire da una narrazione, quella della storia mia
e di Carmen, entrambe chirurghe perché, seppur molto specifica,
la consideriamo paradigmatica.
Quando abbiamo cominciato, 30 anni fa, non era comune per una
donna scegliere specialità chirurgiche, diciamo che la nostra è
stata la prima generazione di donne che si è autorizzata a fare
questo passo.
“Ti assumo perché sei brava, anche se sei una donna” Queste
le parole del nostro direttore, il giorno in cui mi comunicava l’esito del mio concorso di assunzione in Iª Chirurgia all’Ospedale
Civile. Un sogno si realizzava, anche se attraverso parole che
sapevano di umiliazione, che dicevano quanto l’esser donna connotasse in negativo l’essere che mi era spettato in sorte. Parole
che ricordano la battuta di Clint Eastwood nello splendido film
Million dollar baby, quando l’allenatore di box, dopo insistenze e
suppliche, finalmente decide di allenare Hilary Swank e dice:
“Cercherò di dimenticare il fatto che sei una ragazza”.
Supplicare, insistere, questa è stata la strada che abbiamo scelto
e quando finalmente ci hanno fatte entrare, pena la mortificazione della nostra femminilità, il dover far dimenticare che siamo
donne, noi ci siamo sentite grate, perché come loro percepivamo
questo ingresso come un privilegio, una concessione, un elevarsi
al di sopra della comune condizione femminile, che poteva essere solo mediocre.
Le donne sono considerate non affini alla scienza, ad una scienza che
si presenta come neutra ma che nei fatti è maschile. Per poterla avvicinare è necessario possedere dei caratteri di eccezionalità che portino “a livello” un femminile mancante. In un bel testo della comunità scientifica femminile Ipazia, fondata da donne scienziate che promuovono un nuovo modo di fare scienza, si legge “Quando il riconoscimento è dato ad una donna è come se fosse sempre accompagnato da un NONOSTANTE, perché la sua presenza non era prevista. Si crea perciò una contraddizione tra la fonte dell’autorevolezza e la persona che ne viene investita... questo spinge molte donne
che lavorano in campo scientifico a considerare il valore dato a sé
come dato ad un neutro, ed a temere che esso sarebbe diminuito
da un collegamento esplicito al loro essere donne” (1). Il nostro
femminile è in sostanza un ingombro, di cui noi per prime vogliamo
dimenticarci perché non ci venga revocato il privilegio.
E
Non credo che la scelta sia fra aderire al
nostro destino biologico e rifugiarci nel ruolo
di madri e mogli oppure mimare il maschile.
Credo che la strada stia nel dare visibilità e
valore alla differenza, nel mettere la differenza al posto della parità.
T R A G U A R D I
di Mariagrazia Fontana
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S G U A R D I
E
T R A G U A R D I
Sguardi e traguardi
34
lavoro, ci ha salvate entrambe da deliri di carriera: l’essere
madri, con i piedi ben conficcati per terra, attente alle relazioni
d’amore, ci ha aiutate a capire ciò che realmente contava.
Va anche citata l’autorizzazione materna che nel mio caso è stata
fondamentale. Mia madre ha dovuto sudarsi lo studio che per lei
non era previsto, attraverso uno sciopero della fame per potersi
iscrivere ad una scuola superiore. Nella sua generazione, le
donne, anche quelle che appartenevano a famiglie abbienti, non
erano destinate allo studio ma unicamente al matrimonio.
La sua presa di posizione netta e coraggiosa, la sua scelta di stare
nel mondo e non solo in famiglia, ha segnato il mio immaginario
e mi ha autorizzata a scegliere il lavoro che amavo, un lavoro che
è stato centrale nella mia vita, in cui ho investito moltissimo.
Ovviamente questo enorme investimento non è stato gratuito.
È un’atavica abilità femminile quella dell’unire invece che separare. È un grande sogno il nostro di volere tutto, sostenuto dalla
passione e dal desiderio di essere nel mondo.
Dunque non credo che il problema stia nelle propensioni scientifiche delle donne. Sia io che Carmen abbiamo all’attivo 2 specialità chirurgiche, insegnamento universitario, quasi 30 anni di chirurgia sul campo, anche con ruoli dirigenziali. Ad un certo punto
della nostra carriera ci siamo trovate entrambe contemporaneamente, capo reparto di 2 settori del reparto di chirurgia, cosa mai
vista che 2 donne dirigessero chirurghi maschi anche più anziani.
Alla dirigenza ci siamo arrivate, come molte altre donne, ma non
abbiamo voluto restarci. È questo che va interrogato.
Le scienziate della comunità Ipazia, ascrivono questa insofferenza non tanto all’oppressione ma alla mancanza di un linguaggio
autonomo, una mancanza di simbolico che non permette di
avere autorità femminile.
In un testo del 1991 della comunità filosofica di Diotima (2) si
legge: “La donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza
il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel
linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei
prodotte dall’uomo. Così la donna parla e pensa e si pensa,
ma non a partire da sé”.
“Sul piano simbolico l’autorità resta legata al nome del padre,
fa corpo con l’ordine simbolico maschile, e quando è un corpo
di donna ad essere portatore di autorità, quest’ultima si dà
come supplente, continua a riferirsi all’ordine paterno”… “Il
nodo dell’autorità femminile renderebbe ragione della
difficoltà delle donne a esercitare autorità e ad attribuirla ad
altre donne, dello stridore a coniugare l’identità di scienziate
con quella di donne. Una sorta di conflitto fra la fedeltà alla
comunità scientifica e l’appartenenza sessuale, come se
lasciando parlare il nostro femminile si perdesse autorità
scientifica, perché l’autorità resta legata al padre”.
Il disagio che percepivamo nel lavoro riguardava principalmente
2 temi.
La relazione con i pazienti che noi vivevamo in modo diverso dai
colleghi maschi. Non si tratta semplicemente di essere gentili,
umani con i pazienti, è che per la maggioranza dei colleghi la
relazione con il paziente è assolutamente secondaria, sovrastata
dalla ricerca di prestigio personale. In un ambiente competitivo
come la chirurgia, la lotta è per sé, per il proprio successo,
per la propria affermazione, per la carriera. La relazione con il
paziente viene dopo. Per noi questa relazione è centrale, è il
lavoro, è ciò che attribuisce un senso al gesto tecnico.
Difficile stabilire perché per molte donne, anche in altre professioni, sia così, Possiamo appellarci ad una diversità fisiologica, al
nostro essere biologicamente predisposte all’accoglienza, a possedere un corpo che diventa due.
Non che la carriera ci abbia fatto schifo, riconosco in noi ambizione
e bisogno di riconoscimento che considero legittime molle al miglioramento di sé. Ma non come obiettivo primario e non a tutti i costi.
E arrivo al secondo disagio, che è quello di dover accettare percorsi di carriera non trasparenti. In chirurgia, come in molte altre
professioni altamente qualificate, la carriera è raramente legata
alla competenza, alla bravura o al curriculum. Contano molto di
più nepotismo, cooptazione, appoggi politici, portaborsismo.
Questo è dato per scontato dai colleghi maschi, che lo vivono con
disagio, ma lo accettano come regola del gioco. Per noi è stato
difficile, direi impossibile ad un certo punto stare a questi patti.
Prioritaria invece è stata la relazione fra noi due. Ci siamo trovate di fronte alla scelta se farci la guerra, che è il normale relazionarsi fra colleghi nelle professioni competitive, o provare a
sostenerci a vicenda. Abbiamo scelto la seconda opzione e sottolineo che non era certo nell’ordine delle cose. Nel momento in
cui vivi il lavoro come affermazione personale, tutti ti sono nemici, perché tutti ti possono fare ombra. Se metti al centro la relazione con il paziente cambi completamente prospettiva e anche
la relazione sul posto di lavoro può essere uno strumento per
lavorare meglio. E in effetti così è stato. In realtà non si è trattato di una scelta consapevole, diciamo che le cose sono venute
così, abbiamo cominciato a condividere i pensieri, le perplessità,
la stanchezza, l’arrabbiatura, la sofferenza che si provava di
fronte al dolore. E questa condivisione è diventata sostegno quando una delle due non ce la faceva, quando prevaleva lo sconforto, quando si andava allo scontro. È stata inconsapevole produzione di pensiero femminile nel momento in cui inventavamo
strategie cliniche o progetti di studio.
In quel contesto di relazione, una volta che ci siamo dimostrate
che quel lavoro lo sapevamo fare e ci è stato riconosciuto, abbiamo realizzato che il nostro desiderio non era la parità, non era
essere come loro. Ci sentivamo estranee, quel modo di lavorare
non ci corrispondeva, la libertà femminile era altro, noi lavoravamo in altro modo.
Non avevamo davanti a noi modelli femminili di riferimento che
legittimassero questa diversità, noi eravamo modello per le colleghe giovani e per le studentesse. Abbiamo fatto di tutto per
modificare il contesto, per piegare le regole del gioco, ci siamo
impegnate in questo tentativo per più di 20 anni e in parte, per
ciò che competeva noi, qualcosa è cambiato. Una pratica diversa
si è sperimentata e si è resa visibile, il nostro sforzo era davanti
agli occhi di tutti, colleghi, pazienti e studenti.
Ma il contesto solo questo concedeva, la testimonianza individuale,
non di più. Pur essendo convinte che la relazione fra il cambiamento di sé e il cambiamento del mondo è strettissima, abbiamo dovuto realizzare che ci voleva ben altro per cambiare la chirurgia.
Ci si è chiarito che quel contesto, quello della gara con il
maschio, non era fecondo, era per noi paralizzante, che non
avevo tempo da perdere in fatica sterile perché quel contesto
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Sguardi e traguardi
non lo avremmo trasformato, non c’era spostamento possibile.
C’era un’integrità da difendere, una pratica da affermare, incompatibile con quelle rigidità che producevano solitudine e che premiavano talenti che non mi appartenevano.
Quell’inadeguatezza, quella mancanza di significato nel nostro
essere donne non le sentivamo più, sentivamo di non poterci più
appiattire su un modello non nostro perché c’era altro che doveva essere lasciato vivere ed agire.
In questa nostra relazione è maturata la scelta di abbandonare la
chirurgia. Scelta molto dura e sofferta, ma l’unica che ci consentisse di restare intere, di restare fedeli a noi, a come siamo fatte,
di sopravvivere senza farci stritolare e soprattutto di non legittimare uno stile di lavoro che non riuscivamo a modificare.
Non era una discriminazione quella che pativamo, lì c’eravamo e
con autorevolezza, ma non volevamo restarci a quei patti.
Delfina Lusiardi (3) scrive: “Inconsapevoli, ci lasciamo trascinare nel disordine del mondo e spendiamo la nostra energia, la
nostra immaginazione e passione, la nostra intelligenza in giochi dove le regole sono già decise in partenza dentro un ordine che si nutre della fecondità femminile senza nemmeno
accorgersi dell’alimento che riceve. La divora e basta… E in
effetti lì, in quelle istituzioni, siamo entrate in tantissime negli
ultimi decenni, ma vediamo che proprio lì è diventato molto
faticoso, se non impossibile, per una donna essere culturalmente creativa, spiritualmente feconda. Spesso una donna
esaurisce la propria energia nell’inventare strategie di sopravvivenza, nel resistere e proteggersi dai giochi di potere ai quali
viene costantemente invitata, nel cercare qualche passaggio
perché la sua vitalità creativa possa realmente esprimersi e
dare i suoi frutti”.
Il nostro non è un passo indietro, è un passo altrove, un voler
prendere le distanze, un non voler partecipare, non spartirsi la
torta a tutti i costi, perché il nostro obiettivo non è il potere in
sé ma caso mai il potere come strumento per fare ciò che ci
appassiona.
Così a 50 anni suonati ci siamo rimesse in gioco, non abbiamo
scelto di dedicarci alla vita privata o di restare a fare flanella
in attesa della pensione. Abbiamo investito in nuove imprese
professionali, sempre con entusiasmo e passione.
Non è stata una passeggiata lasciare la chirurgia dopo tanti anni.
Alcune notti mi sogno ancora di essere in sala operatoria e mi sveglio con la sensazione di avere operato realmente. Quando ci
capita di parlarne, cioè sempre, entrambe manifestiamo i sintomi della nostalgia di un grande amore finito.
È un po’ come quando ci si innamora dell’uomo sbagliato.
Sarebbe perfetto se solo non avesse alcune caratteristiche. Allora
ci si fa in 4 per modificarlo ma, ovviamente, non cambia e l’unica strada resta quella di lasciarlo per cercare un altro amore. Più
facile a dirsi che a farsi!
È un cambio di direzione che altre donne faticosamente hanno
maturato in altri ambiti.
Marina Terragni (4) dice nel suo libro intitolato “La scomparsa
delle donne” che “Forse oggi i partiti vogliono le donne più di
quanto le donne vogliano i partiti” e riporta l’opinione di Luisa
Muraro, docente di filosofia all’università di Verona e fondatrice della comunità filosofica femminile Diotima “In questo
momento storico c’è una pressione sulle donne perché si uniscano agli sforzi di credere nelle imprese della buona volontà
umana maschile. Ci viene offerta l’integrazione in queste
imprese (parlamenti, partiti, eserciti, università, società scientifiche e sportive), alla pari con gli uomini, in cambio di quello
che io chiamerei un servizio simbolico. Che consiste nel dare
credito a queste imprese spostando su di esse i nostri più grandi desideri”. Continua Terragni “Per adesso la maggioranza di
donne continua a non lasciarsi irretire da quello che Muraro
definisce “un mediocre possibile”. Non si fidano di quella politica, non ci credono, importa loro poco. Non ci si sente poi
così povere per il fatto di non essere lì. Non andrebbero mai a
perdere il loro tempo in quei giochi di potere e in quei corridoi. Uno spreco di tempo che è anche “spreco di spirito” come
dice Virginia Woolf”.
Non credo che la scelta sia fra aderire al nostro destino biologico
e rifugiarci nel ruolo di madri e mogli oppure mimare il maschile.
Credo che la strada stia nel dare visibilità e valore alla differenza, nel mettere la differenza al posto della parità.
È una strada difficile, tutta da inventare, ma a mio avviso è l’unica per la quale valga la pena di impegnare energie. Anche perché
se annulliamo la differenza, se ci trasformiamo in una fotocopia
del maschio dove finisce l’amore? L’amore è amore per ciò che
è diverso da noi e ci attrae. Livellarci ci fa correre il rischio di
cancellare il motore del mondo, che non è né la forza né il potere,
e noi lo sappiamo bene.
BIBLIOGFRAFIA
1234-
Ipazia, Autorità scientifica autorità femminile. Editori Riuniti, 1992
Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La tartaruga edizioni, 1991
D. Lusiardi, Che cosa sa il corpo che io non so? Seminario Madrid 2008
M. Terragni, La scomparsa delle donne, Mondadori 2007
MARIAGRAZIA FONTANA
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1982. Specializzazione in
Chirurgia Generale, in Chirurgia Apparato Digerente e Chirurgia
Digestiva. Dirigente Medico presso l’Unità Operativa di I Chirurgia
Generale dal 1986 al 2007. Dirigente Medico presso Dipartimento
Emergenza Ospedale Civile di Brescia. Ha rivestito per anni il ruolo di
Professore a contratto presso il Corso di Laurea in Medicina e
Chirurgia dell’Università di Brescia, presso la Scuola di
Specializzazione in Chirurgia dell’apparato digerente e presso il corso
di laurea per ostetriche. Presidente Associazione Italiana Donne
Medico sezione Brescia. Responsabile del progetto di “Accoglienza
delle donne che hanno subito violenza” per l’Ospedale Civile di
Brescia dalla sua istituzione.
(Un suo precedente articolo su NOSTOP n. 58 - Marzo 2008).
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Femminista sarà lei
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di Mariangela Mianiti
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La parola femminista è
passata di moda al punto
che persino la rivista Via
Dogana, sul numero 93 del
giugno 2010, titolava in
copertina “Bello o brutto, il
suo nome è femminismo”,
come a dire che il termine
può piacere o non piacere,
ma la sostanza è quella e da
lì non si può prescindere.
Da qualche tempo, la parola femminismo
sembra far paura, come se il dichiararsi
femminista equivalesse a dire “Sono una
testa calda che fa a brandelli gli uomini,
vuole il loro scalpo per fargliela pagare a
quei bastardi, sono arrabbiatissima proprio”. Basta guardare di tanto in tanto la
rincitrullente tivù e prima o poi capita che
un/a giornalista chieda a una signora/ina
“Lei è femminista?”. Quasi sempre la
risposta è: “Nooooo, per carità. Però è giusto che le donne abbiano gli stessi diritti
degli uomini”.
Viene da pensare che ci sia un po’ di confusione sotto il cielo e per un paio di ragioni. La prima: si tende a identificare il fem-
minismo solo con le immagini degli anni
Settanta, quando si scendeva in piazza per
reclamare diritti, dignità, parità, con
manifestazioni dure, urlando magari
“L’utero è mio e lo gestisco io”. La seconda: si tende a pensare che i grandi passi
fatti dalle donne negli ultimi trent’anni
siano spuntati da soli, come una pera su un
pero, o per gentile concessione di qualcuno. Sembra che in troppi si siano dimenticati che se le donne oggi hanno molte più
possibilità di scelta di prima è grazie al
femminismo, cioè al fatto che in tante,
alcuni anni fa, si sono arrabbiate e hanno
detto Basta! Sarà lapalissiano ricordarlo,
ma forse giova, così magari qualcuna
prima di dire “Nooooo, io non sono femminista, però ai miei diritti ci tengo” ci
pensa su. Resta il fatto che la parola femminista è passata di moda al punto che
persino la rivista Via Dogana sul numero 93
del giugno 2010 titolava in copertina
“Bello o brutto, il suo nome è femminismo”, come a dire che il termine può piacere o non piacere, ma la sostanza è quella e da lì non si può prescindere.
Ora, al di là del velinismo, delle mandrugone d’assalto, dei corpi femminili mercificati, corretti, esibiti, usati dalle proprietarie stesse per fare carriera, farsi notare,
ottenere un’inquadratura, un complimento, una parte, un voto, al di là delle cadu-
te di gusto e delle amnesie, è innegabile
che le donne di oggi vivono molto meglio
delle donne di ieri perché oggi possono
scegliere. È la possibilità di scegliere che
fa la differenza nella vita perché poter
scegliere vuol dire essere liberi. Poi si può
sbagliare, si può perdere la strada, si può
fare confusione o retromarcia, ma lo si è
fatto scegliendo e non perché costrette in
un percorso obbligato.
Pochi mesi fa ho intervistato, per Vanity
Fair, Licia Ronzulli, eurodeputata del pdl e
così figlialmente legata a Silvio Berlusconi
che lo accudì personalmente dopo che fu
ferito in piazza Duomo. Licia Ronzulli ha
ammesso di sapere pochissimo del femminismo, ma ha aggiunto che non potrebbe
mai vivere senza la propria indipendenza
economica e di scelta. In sostanza, pratica
il femminismo senza quasi conoscerlo.
Quando al Circolo della Rosa di Milano si
è discusso del numero di via Dogana sul
femminismo, Luisa Muraro ha detto che è
proprio questo che si voleva ottenere, la
possibilità per ogni donna di essere autonoma e poter decidere della propria vita.
E poco importa se chi ha raccolto i frutti
di quella lotta sa poco o nulla della storia
del femminismo, perché contano i fatti.
Personalmente sono convinta che una
maggiore consapevolezza del perché
certe cose sono successe non farebbe
male, però è vero che è molto meglio litigare con una donna perché si hanno idee
diverse che non poterci proprio litigare
causa costrizione al silenzio o sottomissione culturale.
A questo proposito, ho un esempio chiarissimo da raccontare: la mia vita e quella di
mia madre. Per ragioni anagrafiche ero
troppo piccola per poter manifestare con
le femministe negli anni Settanta, però
abbastanza grande per capire che cosa
stava succedendo. Vivevo in provincia di
Parma, nella campagna contadina tutta
dedita alle mucche, ai campi, ai tortellini
in brodo, al culatello e al parmigiano. Le
donne lì, compresa mia madre, lavoravano
solo in casa, ma il doppio degli uomini.
Campi, casa, figli, bucato, cucina, stiraggio, marito, pulizie. Facevano tutto da
sole e accettavano le loro incombenze
senza fiatare perché a nessuna veniva in
mente di lamentarsi e tanto meno di chiedere al consorte di occuparsi dei piatti o di
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pulire il culo ai figli, figurarsi. Mia madre
ci aveva aggiunto anche del suo, nel senso
che facendo la sarta cuciva per tutta la
famiglia e per il circondario. I clienti la
pagavano, mia nonna e mio nonno no. A
lei piaceva lavorare, lavorava come una
matta e aveva un solo desiderio, andare a
vivere in città. Quando marito e genitori
avevano deciso di comprare l’osteria, lei
timidamente aveva provato a dire che non
aveva voglia di seppellirsi in quel buco circondato dai campi, ma non la ascoltarono.
Si adattò, strinse i denti, cercò di tirare
fuori il meglio dal luogo, costruì relazioni
di buon vicinato e di lavoro, fece quattro
figli, poi scoppiò. Dopo la tempesta ripeté,
meno dolcemente di qualche anno prima,
che lei lì non ci voleva più stare, ma il
moloch della famiglia le impose ancora
una volta la sua scelta. Per un attimo
pensò di andarsene portandosi via la prole,
ma non aveva più l’energia necessaria e
poi all’epoca non si usava e osava mollare
il marito, anche perché il divorzio non era
ancora legge. Rinunciò. Mia mamma non è
stata libera di scegliere, così ha lottato
per garantire ai suoi quattro figli la possibilità a lei negata, decidere per se stessi,
essere autonomi. In altre parole, ci ha
spinto a studiare e tutti, contagiati anche
dal rancore che lei portava a quel luogo,
ce ne siamo andati lontano.
Io sono la sua unica figlia femmina e credo
anche per questo di aver sentito prima e
più profondamente dei miei fratelli il bisogno della città, che ai miei occhi era e
rimane il simbolo della vita libera. In città
i vicini non sbirciano da dietro la finestra
per controllare a che ora torni a casa, non
ti giudicano se esci giorno con un uomo e
il giorno dopo con un altro, non ti guardano strano se ti vesti con estro, se ti siedi al
bar a leggere il giornale, se torni tardi la
sera, se esci da sola o in compagnia,
insomma se fai tutte le cose che fanno
anche gli uomini. In città la gente tende a
pensare alla propria vita piuttosto che a
quella degli altri. In città puoi scegliere
fra tanti lavori, tanti luoghi, tante amicizie. In città puoi vivere da sola, non sposarti e non fare figli e nessuno si stupisce.
Questo pensavo e questo ho trovato.
A conti fatti, anche mia madre è stata
femminista, il suo aprirci la strada della
scelta è stata una grande intuizione femminista. Certo, avesse spaccato qualche
piatto in testa a mio padre e ai miei nonni
invece di essere remissiva, avrebbe praticato il femminismo anche per se stessa
invece che solo per i figli. Peccato, non ha
avuto il colpo di genio o il coraggio che
invece io ho trovato proprio vedendo le
donne manifestare. Dai giornali e dalla
televisione arrivavano le immagini e le
parole dei cortei, brandelli di richieste,
rivendicazioni, al liceo si discuteva, anche
la provincia dava i primi segni di cambiamento. Il femminismo era come un’onda
che partiva dalle città e portava soprattutto un messaggio che a me diceva
“Possiamo essere libere, possiamo parlare,
possiamo dire quello che pensiamo, possiamo vivere la vita che vogliamo”. Chi ha
conosciuto o visto la costrizione capisce
meglio la libertà, per questo sono grata al
femminismo, alle femministe e a tutte le
donne che hanno lottato anche per me.
Ora le cose sono cambiate, le donne sono
così padrone di se stesse e del proprio
corpo che possono decidere di usarlo come
vogliono, fino al paradosso di trasformare
quella libertà in una nuova gabbia.
Ida Dominijanni su Il Manifesto ha parlato
di post femminismo riferendosi alle veline,
alle D’Addario e alle Noemi Letizia, un
post femminismo che pratica delle sottili
connivenze con un certo modo di intendere il rapporto fra corpo, sesso, immagine,
desiderio, potere e denaro. Se un tempo le
donne si erano ribellate all’ipocrisia e al
non detto su corpo, potere e sesso, ora
molte cavalcano questa relazione ammiccando nel clima assordante e volgare della
tivù e dei media. Secondo Dominijanni, in
questo contesto è più complicato e difficile prendere la parola, che è uno degli atti
fondativi del femminismo. Come mai è
successo tutto ciò? Perché le donne reali
sono scomparse dai media? E come se ne
può uscire?
Luisa Muraro ha scritto su Via Dogana che
l’attualità è come un testo da tradurre,
con la differenza che noi in quel testo ci
siamo in prima persona. Stare nel testo e
registrare quello che capita a te è un atto
di Signoria vera, un atto che però bisogna
imparare a scrivere e ad inserire nel contesto e nel momento giusto. Pensare, scegliere, parlare e agire si può fare sempre
meglio e sempre di più. Dall’altra parte,
ma anche fra donne, serve ascolto. Sennò
finisce che parli da sola, oppure che non si
tiene conto di quello che dici.
Concludo con un aneddoto segno dei
tempi. All’inizio dell’intervista a Licia
Ronzulli dichiaravo che, da femminista, mi
sono sempre chiesta come faccia una
donna del pdl a non sentirsi a disagio di
fronte alle battute e agli atteggiamenti
sessisti di Berlusconi. In redazione una
manina ha lasciato tutto tranne la parola
femminista. Forse era troppo lunga.
Meglio tagliare. Meglio non connotarsi
troppo. Qualcuno potrebbe provare disagio di fronte alla parola femminismo.
Credo sia ora di tornare a dire, con orgoglio, io sono femminista.
MARIANGELA MIANITI
Nata a Parma, vive a Milano da molti anni.
Ha lavorato per varie testate giornaliste e
attualmente collabora con Vanity Fair e La
Repubblica. Ha vinto i premi giornalistici
Cronista dell’anno e Maria Grazia Cutuli.
Ha pubblicato per DeriveApprodi Una
notte da entraineuse. Lavori, consumi,
affetti narrati da una reporter infiltrata e
il recente La vita Viagra. Uomini, pillole,
sesso e relazioni. È socia del Circolo della
Rosa di Milano e tiene un blog sul sito
www.scrittisumisura.it.
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La comunicazione pubblica attenta al genere
Il progetto MiComunico
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di Carmen Disanto, Centro di Iniziativa Europea (C.d.I.E.)
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La comunicazione pubblica può svolgere un ruolo importante nel
sostenere il cambiamento e la rimozione di pregiudizi e stereotipi
legati al sesso, promuove modelli sociali, lavorativi e culturali in
cui riconoscersi e verso i quali tendere. La promozione e diffusione della comunicazione in chiave di genere può pertanto svolgere
un ruolo fondamentale nell’incentivare la partecipazione femminile alla vita economica, contribuendo a combattere i fattori culturali che rafforzano la segregazione occupazionale di genere.
Inoltre, la comunicazione e i servizi promossi in ottica di pari
opportunità possono contribuire alla soluzione di problemi di conciliazione dei tempi che gravano in particolare sulle donne.
Il progetto
Questo è stato il presupposto su cui si è sviluppato il progetto
MiComunico, Comunicazione di genere nella provincia di Milano,
co-finanziato dalla Regione Lombardia all’interno del bando
“Piccoli progetti per grandi idee” e dalla Provincia di Milano assessorato alle Pari opportunità. Si tratta di una piccola iniziativa della
durata di 6 mesi che si è conclusa alla fine di giugno 2010.
La mission del progetto è quella di potenziare il ruolo della comunicazione delle amministrazioni pubbliche della provincia di
Milano per favorire le pari opportunità e ridurre, nello stesso
tempo i rischi di utilizzazione di messaggi direttamente o indirettamente discriminatori. La comunicazione in ogni ente riveste un
ruolo fondamentale per promuovere un cambiamento culturale
contrario alla discriminazione e agli stereotipi di genere, stereotipi oggi giorno alimentati dagli stessi canali comunicazione (in particolare dai Media e dalla televisione). Il progetto coinvolge direttamente i responsabili degli uffici pubblici di comunicazione, sia
figure tecniche sia politiche, in tutte le sue fasi.
Gli obiettivi che il progetto si è posto sono:
쐌 Rafforzare la comunicazione pubblica nella provincia di Milano
쐌 Mettere in risalto le buone pratiche di comunicazione istituzionale di genere in maniera da facilitare un’azione di benchmarking a
livello locale, tenendo in particolare considerazione la comunicazione istituzionale sviluppata dagli enti locali della provincia.
쐌 Combattere gli stereotipi di genere nella comunicazione pubblica.
쐌 Formare e sensibilizzare i responsabili della comunicazione degli
enti locali coinvolti sulle strategie di comunicazione anche in
chiave di genere.
쐌 Promuovere la conoscenza e la diffusione delle linee guida sulla
comunicazione istituzionale di genere già esistenti a livello locale e regionale e promuoverne la loro applicazione.
쐌 Sperimentare dei prodotti di comunicazione a favore delle pari
opportunità innovativi e che seguano le linee guida considerate.
쐌 Sensibilizzare l’opinione pubblica e diffondere il progetto su scala
provinciale e in seconda battuta nazionale come buona prassi.
Il progetto si è rivolto a:
쐌 responsabili della comunicazione della Provincia di Milano e degli
Enti locali della provincia coinvolti;
쐌 referenti e responsabili per le politiche di pari opportunità della
Provincia di Milano e degli Enti locali della provincia coinvolti;
쐌 operatori della comunicazione con particolare riferimento alle
agenzie di comunicazione fornitrici degli enti locali;
쐌 il grande pubblico, vale a dire l’opinione pubblica, intesa in
senso globale.
L’iniziativa si è sviluppata in quattro macro attività:
1. Ricerca: raccolta e analisi delle buone pratiche in tema di
comunicazione istituzionale orientate alle pari opportunità, in
particolare di:
- campagne di comunicazione istituzionale relative alle politiche promosse dagli enti locali con particolare riferimento alle
politiche per il lavoro e di pari opportunità;
- azioni di comunicazione dei servizi relativi alla conciliazione,
al lavoro, formazione/educazione;
2. Formazione: workshop interattivo di tre giornate rivolto ai
responsabili di comunicazione e delle politiche di genere dei
comuni della provincia sulle strategie di comunicazione, sull’analisi delle linee guida esistenti sulla comunicazione di genere.
3. Sperimentazione: applicazione delle linee guida di comunicazione in chiave di genere e sviluppo di alcuni prodotti di comunicazione presso alcuni enti locali della provincia di Milano tra
cui il sito del progetto www.micomunico.it
4. Diffusione: promozione del progetto e presentazione dei prodotti realizzati al convegno finale che si è tenuto il Giovedì, 24
giugno 2010 presso il Palazzo Isimbardi della Provincia di Milano.
Nel sito di MiComunico potete visionare e scaricare i materiali
distribuiti durante la formazione, le linee guida e buone prassi sulla
comunicazione pubblica attenta al genere, e il Vademecum del linguaggio di genere.
I partner coinvolti sono:
Centro di Iniziativa Europea (C.d.I.E.)
Provincia di Milano, Assessorato alle Pari Opportunità
Lega delle Autonomie Locali della Lombardia
Comune di Novate Milanese, Assessorato Cultura e Comunicazione
La comunicazione pubblica in ottica
di pari opportunità
Essa svolge una duplice funzione: da una parte promuove e valorizza il ruolo sociale ed economico della donna; dall’altra migliora la
qualità e l’efficacia della comunicazione.
Comunicare in ottica di genere a livello operativo significa includere alcuni semplici principi nella pianificazione delle attività di
comunicazione e di informazione. L’individuazione di tali principi si
è basata in linea di massima sui seguenti elementi individuati in
altri progetti relativi al tema pari opportunità e comunicazione. La
loro adozione contribuisce a ripensare e adeguare all’ottica di pari
opportunità strategie e strumenti di comunicazione dell’ente pubblico, individuare a valorizzare il target delle campagne di comunicazione partendo dalla distinzione uomo-donna, rappresentare la
complessità legata alla molteplicità dei modelli maschili e femminili nella società e nel lavoro e rispondere in maniera adeguata alle
aspettative e ai bisogni dell’utenza. Riportiamo di seguito i più
importanti principi per comunicare in ottica di genere, accompagnati da una sintetica spiegazione del loro significato.
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I PRINCIPI DA APPLICARE ALLE CAMPAGNE E PRODOTTI
- Trasversalità di genere (mainstreaming)
Per avvicinare le istituzioni ai cittadini e alle cittadine è necessario parlare in maniera trasversale a uomini e donne. Con questo
principio, si intende l’adozione dell’ottica delle pari opportunità
tra uomo e donna come valore culturale da promuovere e condividere all’interno dell’ente. La prospettiva di genere quindi deve
essere presa in considerazione
anche tra gli strumenti rivolti
anche agli operatori interni.
E’ importante inserire nel piano di
comunicazione annuale dell’ente
le tematiche di pari opportunità,
mettendo a fuoco gli obiettivi e
prevedendo il target “donna”
come trasversale.
Infine, le analisi statistiche devono
considerare i dati disaggregati per
sesso nella lettura delle proiezioni
socioeconomiche e di mercato
affinché l’analisi sia corretta e
spieghi in maniera più precisa i
fenomeni sociali considerati.
- Equità
Per equità si intende l’estensione
della promozione di servizi e politiche tradizionalmente rivolti alle
donne al target maschile e l’inserimento del target femminile in
modo trasversale nei messaggi e
nelle campagne.
- Complessità
La complessità racchiude la rappresentazione diversificata e realistica
delle identità di genere evitando il
ricorso a modelli semplificati e stereotipati, in coerenza con i modelli
sociali emergenti che si discostano
sempre più da quelli tradizionali nei
quali la donna è relegata a modelli
familiari e a ruoli di cura.
- Rappresentatività
Presenza di modelli che riflettono
bisogni e aspettative reali e target
emergenti al fine di raggiungere in
maniera più efficace i bisogni
effettivi.
Gli Enti Pubblici hanno a disposizione una serie di strumenti per
introdurre la chiave di genere nelle loro attività di comunicazione e informazione. In particolare, essi dispongono degli orientamenti nazionali, europei e internazionali, dell’autodisciplina
pubblicitaria, dei diversi codici di condotta implementati a
livello nazionale e delle associazioni che si occupano dell’introduzione della chiave di genere nella comunicazione in toto.
In questi ultimi anni, sono stati sviluppati alcuni progetti a livello locale, nazionale ed europeo finalizzati a sostenere politiche
di genere e a dare un contributo significativo alla diffusione di
una comunicazione istituzionale orientata alle pari opportunità.
Molti di questi progetti hanno prodotto linee guida o raccomandazioni finalizzate alla diffusione della cultura di genere; oltre
che all’aumento della presenza delle donne nel mercato del
lavoro, al sostegno della creatività femminile, alla promozione
di un nuovo ruolo della donna nella nostra società.
Nel 2004, il Progetto Comunico Donna (co-finanziato dal Fondo
Sociale Europeo e da Regione Lombardia) ha prodotto le “Linee
guida per la comunicazione chiara ed efficace orientata alle
pari opportunità”. Nel 2007, Il progetto LEAD (co-finanziato
attraverso Interreg IIIC, Capofila Comune di Bari) ha prodotto le
“Linee guida europee per la comunicazione orientata al genere”. Inoltre, la Rete Elette Pugliesi con capofila Interprogram
ha redatto il “Manuale Comunicazione Istituzionale di genere”
(co-finanziato dal Fondo Sociale Europeo Regione Puglia).
Il progetto MiComunico ha consentito di far conoscere a un pubblico più ampio di persone che lavorano con diversi ruoli negli
Enti locali le tematiche relative alla comunicazione istituzionale e al ruolo che la Pubblica Amministrazione può giocare per
promuovere stili di vita orientati alle pari opportunità e alla non
discriminazione.
È molto importante sottolineare che il tema dell’attenzione a
una comunicazione orientata al genere non è più percepito
come un ‘requisito formale da rispettare’, ma come un elemento che può migliorare la comunicazione nel suo complesso,
stimolando riflessioni e processi innovativi per semplificare e
rendere più efficaci i messaggi.
Lavorare in rete è la dimensione ideale per potenziare l’efficacia della comunicazione istituzionale, scambiare esperienze,
migliorare la qualità della comunicazione, innovare e integrare
tutti gli strumenti a disposizione. In quest’ottica la Provincia di
Milano, partner del progetto, ha promosso un lavoro di rete con
i comuni del territorio che potrebbe essere replicato in altri
contesti a livello regionale.
Nel dibattito e nelle riflessioni sviluppate nel corso del progetto, si è evidenziata la necessità di conoscere meglio la realtà
sociale, i bisogni degli uomini e delle donne che vivono sul territorio milanese sia per poter finalizzare meglio la comunicazione istituzionale, sia per evitare modelli di “comunicazione educativa dall’alto” che non incidono sulla realtà della vita quotidiana delle persone.
Esistono numerosi osservatori e centri di ricerca che analizzano
la situazione socio economica; sarebbe interessante mettere in
relazione i progetti che si occupano di ricerca e quelli che si
occupano di comunicazione e favorire l’accessibilità ai dati per
favorire la conoscenza del territorio.
Dal progetto è emersa, infine, la necessità di monitorare l’efficacia della comunicazione istituzionale per migliorarla in continuazione, semplificarla e finalizzarla meglio consentendo di
raggiungere, in un’ottica di equità, tutte le persone.
Il sito del progetto può diventare il primo nucleo di un
Osservatorio provinciale o regionale sulla comunicazione istituzionale orientata al genere. www.micomunico.it
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Il respiro dell’anima,
prima condizione di libertà
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di Alessandra Macci e Patrizia Melluso
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Il ritorno in Italia di Luce Irigaray, nel mese
di maggio, ha visto la filosofa e psicoanalista impegnata in alcune conferenze. I luoghi scelti Milano e Torino, dove ha presentato il suo ultimo libro: “Il Mistero di
Maria” edito dalle Edizioni Paoline.
Questo testo prosegue il confronto e il dialogo tra diverse famiglie culturali o religiose. La Irigaray non usa parole come “credenti e non credenti”, “oriente e occidente”. Né intende cadere in un relativismo
nichilista, ma rispettare l’apporto di ogni
tradizione dell’umanità. Per questo, preferisce interrogare e interrogarsi “sulla via
che permette all’umanità di raggiungere
il suo compimento”.
L’avvicinamento alla tradizione dello yoga,
ad esempio, le ha permesso di scoprire
aspetti della tradizione cristiana che non
avrebbe percepito senza un dialogo “in se
stessa” con altre, diverse tradizioni. “Non
avrei capito il senso di tali parole – il soffio di Dio e lo Spirito Santo - nella mia
propria tradizione” senza una pratica
dello yoga, dice Irigaray, ed ancora:
“Ricevere qualche luce da altre tradizioni
e portarne altre... È così che ho imparato
che un amore senza respiro o un respiro
senza amore non bastano”.
Per la Irigaray, Maria sembra essere una
donna che rappresenta una tradizione di
saggezza in un mondo di uomini dove il
fuoco è spesso predominante e perfino
distruttore. Maria riesce a sedare la rabbia
di Dio, a trasformare il suo bisogno o desiderio di vendetta in compassione, in
amore. È la mediatrice tra Dio e gli umani.
È quella che sorride alle loro follie.
È il ruolo di una donna che, nella nostra cultura occidentale, rimane ignoto e perfino
disprezzato dalla maggior parte di noi. È
però complesso e decisivo per il divenire,
sia vitale che spirituale, del mondo. Infatti,
il respiro dell’anima è la prima condizione
della libertà. Ognuno/a deve poter avere la
possibilità di respirare insieme ad altri/e
questa atmosfera di bellezza e di interiorità. Il respiro, non solo del corpo ma della
persona intera, è quella condizione senza la
quale non si può accedere ad una vita
autentica. Il respiro, quello che insegna
Maria, ci introduce alla liberazione dall’egoismo, dalla paura, dal desiderio di guadagno, dalla cecità per farci intravedere,
invece, il sorriso, la gentilezza, la gratuità,
l’amicizia, il perdono ricevuto e dato, la
speranza, la compassione.
Questa è solo una delle riflessioni alle
quali questo piccolo libro di Irigaray sul
mistero di Maria ci può condurre. Un altro
tema che la filosofa affronta e che può
aprire il nostro sguardo è quello della verginità di Maria, un tema che non rimanda
affatto, come è nella visione tradizionale,
all’assenza della dimensione sessuale ma,
piuttosto, alla necessità di salvaguardarsi,
mantenendo un’intimità di sé con sé, per
poter assicurare il proprio divenire spirituale e uno scambio spirituale con l’altro,
in particolare con l’altro differente.
Su questo punto della relazione con l’altro
differente, relazione alla quale Irigaray ha
dedicato molta della sua produzione
soprattutto negli ultimi anni, corre il confine con molta parte del femminismo contemporaneo, sia quello che non si preoccupa di una crescita insieme al maschile,
sia del femminismo che continua a porsi
obiettivi di emancipazione. Luce Irigaray è
consapevole di questa distanza: “di Maria
molte donne occidentali, soprattutto
intellettuali e femministe pensano molto
male”. A loro, fondamentalmente, è rivol-
Luce Irigaray, con il suo
ultimo libro, “Il mistero di
Maria”, prosegue il dialogo
tra culture, religioni e tradizioni diverse.
to il discorso che Irigaray fa a pagina 55.
Alle prime, quelle che non vogliono porsi il
problema del due e della costruzione,
insieme al maschile, di un mondo diverso
dall’attuale, Irigaray dice: guardate che il
silenzio di Maria, che la Chiesa interpreta
come sottomissione al maschile, in realtà
è ciò che “ci può lasciare libere di inventare un futuro a modo nostro”. Alle altre,
a coloro che continuano a perseguire
il modello dell’emancipazione, Irigaray
dice: “Però conviene che questo futuro
corrisponda a una fedeltà a noi stesse, a
una coltivazione della nostra energia e
non a una perdita di forze nell’imitazione
di valori che non ci sono appropriati o in
rivendicazioni e in conflitti.”
Siamo convinte che con questi temi ognuna di noi e il femminismo dovrà continuare a cimentarsi.
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Verso una società egualitaria?
Sguardi e traguardi
di Franca Clemente
Alla Casa Internazionale delle Donne di
Roma, sabato 17 luglio, per il Convegno
“Matriarcato ed Economia del Dono”, nove
studiose e attiviste internazionali hanno
condiviso, con le numerose donne presenti, le loro ricerche e il loro contagioso
entusiasmo sui temi cari all’ecofemminismo radicale, toccando inevitabilmente
tutte le questioni fondanti del pensiero
delle donne degli ultimi decenni. È stata
così messa in luce, da una parte, la difficoltà di riannodare il filo rosso con il passato, dall’altra la consapevolezza e la speranza che il lavoro di tutte tenga acceso
quel piccolo lume che deve divenire faro
di speranza per cambiare il buio profondo
del patriarcato.
Nonostante il clima torrido, la sala
“Simonetta Tosi” era stipata all’inverosimile. Sono arrivate con un dono, naturalmente: un pane dalla forma di Dea-madre, cucinato secondo l’antica tradizione del lievito
naturale e del forno a legna. Lo avevano
usato la mattina per un rituale propiziatorio in onore di Giunone, la dea che, prima
della romanizzazione, conservava gli attributi della divinità femminile pagana che il
culto assegnava agli avvenimenti della vita
delle donne. E il pane è stato condiviso tra
le presenti come un rito di unificazione.
agito inconsapevolmente, continua ad alimentare e a far vivere la società come
nutrimento materno, per un figlio però
mostruoso e divoratore della sua stessa
madre: lo scambio contro denaro. La mercificazione di tutti i doni inconsapevoli e
di quelli di madre-natura sono abilmente
deviati dal potere capitalistico e patriarcale per far crescere a dismisura un sistema autofago. È indispensabile gettare luce
sul fatto che il dono gratuito, che le donne
soprattutto continuano a praticare, è ciò
che oggi alimenta l’insaziabile bulimia del
capitalismo e che, riconosciuto e individuato, potrà invece finalmente essere
liberato e rappresentare un autentico
paradigma alternativo.
I moderni studi matriarcali. utilizzando
metodologie interdisciplinari che vanno
dalla storia della cultura e delle religioni,
all’antropologia, all’archeologia, al mito,
si propongono di ricostruire, partendo
dagli studi di Bachofen e Morgan, la conoscenza storica sepolta di società che, dal
paleolitico e in parte ancor oggi, ci presentano una visione sociale incentrata sull’egemonia culturale del femminile.
Civiltà sacrali in cui il divino immanente
conduce all’egualitarismo, alla pace, nonché al rispetto e all’empatia con la
Due reti internazionali di donne, studiose e attiviste
stanno da anni collaborando per esplorare e far
conoscere i loro approcci alternativi alla società
patriarcal-capitalista: la rete sugli studi matriarcali e
quella sull’economia del dono
L’economia del dono, come ci ha ricordato
Genevieve Vaughan che ha organizzato
l’incontro, ha da sempre accompagnato la
nostra specie nelle sue tappe evolutive.
L’homo donans viene prima e dopo il
sapiens-sapiens, perché è la madre che,
insieme al linguaggio, trasmette al bambino la logica che sottende al dono, ovvero
la soddisfazione dei bisogni come sua
intrinseca modalità di relazione. Il dono,
che tutti noi impariamo a praticare prima
che le leggi del patriarcato lo confinino nel
silenzio, è tuttavia il nostro imprinting e
non può essere cancellato, quindi ricompare spontaneamente nella società sebbene travestito da scambio. È il dono che,
Natura. Civiltà passate, che possono però
darci spunti per una trasformazione della
società che adotti regole più accoglienti di
convivenza umana.
Alcune hanno, infatti, parlato di un presente sconfortante per le donne. La politica
neo-liberista della Comunità Europea si è
trasformata in una sorta di colonizzazione,
solo all’apparenza soffice, ma in realtà
molto aggressiva, che sta distruggendo quel
sistema di welfare che soprattutto le donne
avevano costruito e che, seppur all’interno
del sistema capitalistico, permetteva una
migliore qualità di vita. È allo studio un progetto che, seguendo la logica aberrante di
considerare la donna anziana come un peso
per il sistema pensionistico pubblico, la
vuol costringere a optare per la devoluzione dei suoi beni in favore delle compagnie
di assicurazione in cambio dell’assistenza e
della pensione privata. Tutto questo ci fa
sentire ormai l’inquietante presenza dei
metodi totalitaristi di recente memoria, ma
anche dei più antichi roghi, appiccati per
coprire di un velo ideologico il ben più reale
disegno di appropriazione dei beni delle
donne e della terra.
Senza parlare poi della famiglia. Più spesso luogo di sofferenza psicologica e di violenza fisica, viene promossa dalla onnipervasiva propaganda statale e religiosa
come obiettivo insostituibile della vita
delle giovani. La famiglia nucleare è il
luogo dove avviene la separazione tra il
privato e il pubblico, tra le cose “secondarie”, sessualità, emozionalità, e quelle
“importanti” che riguardano la vita della
società e la politica. La storia è piena di
eroi, guerre, grandi avvenimenti, ma non
parla mai dei luoghi della vita quotidiana,
quelli che dovrebbero influenzare la politica. Eletta luogo della procreazione e
della mediazione tra il bambino e la socie-
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tà, la famiglia è in crisi e se ne dà la colpa alla donna, che ne è
il collante. Ma è l’istituzione famiglia che è entrata in crisi, perché sacrifica le donne a non poter vivere liberamente e pienamente l’affettività e la sessualità, slegandole dalla procreazione
e dai problemi della sopravvivenza. Cose garantite invece dalla
famiglia matrilineare, dove convivono più generazioni di donne,
figlie e figli della matriarca, e
dove la comunità dei beni assicura un retroterra economico e
una protezione affettiva che
permette di scegliere liberamente un compagno e potersene liberamente separare senza
che i figli ne facciano le spese.
Per fortuna la colombiana
Angela Dolmetsch ci ha riaperto alla speranza di cambiamento descrivendo, con parole e
immagini, un ecovillaggio,
Naschira, in cui 88 famiglie
condividono i valori materni e
l’economia del dono. Un luogo
in cui donne e uomini impostano la loro convivenza sulla
pace, l’assenza di competitività e la condivisione del lavoro sociale. Un esperimento basato
sulla coltivazione della terra e la distribuzione dei beni prodotti
con forme di baratto e monete alternative. Un esperimento di
cui Angela auspica la replica su larga scala, come contributo per
un cambiamento globale.
E soprattutto, dovremmo cambiare il modo di rapportarci agli
altri. La sudafricana Bernedette Muthier e la filippina Letecia
Layson ci hanno parlato dei principi su cui si basa la convivenza
delle loro comunità, che hanno resistito in parte alla colonizzazione e dove circolano parole come Coesan, Ubuntu, Capua:
parole magiche che esprimono l’interdipendenza e l’interconnessione e che non esistono nel vocabolario dei popoli occidentali civilizzati e civilizzatori. “L’esistenza di una persona avviene
attraverso le altre persone”. “Non c’è diritto senza obbligo”. “Il
diritto dell’uno non può voler dire rinuncia dell’altro”.
Questi sono i principi che portano a ridere di chi tenta di
costruire se stesso al di fuori del suo ruolo nella comunità, di
chi vuole mettersi in mostra, rinunciando così all’eguaglianza,
allo stare insieme, alla sua grande famiglia. Ne ridono, senza
alcuna invidia, come di chi fa una scelta sciocca e autolesionista. Sono i “portatori di cultura”, ci dicono, a tenerla viva e a
difendere la sua unicità: artisti, musicisti. E in particolare le
Babaylan, donne sagge, guaritrici, sciamane, sacerdotesse e
insegnanti, custodi della tradizione. Sono i modi di vita e i principi su cui si basavano le antiche civiltà matriarcali.
Marguerite Rigoglioso, infine, ci ha sorpreso con l’argomento, tra
la storia e il mito, delle nascite verginali. Concepimenti eccezionali, partenogenetici, delle sacerdotesse divine. Sdoppiamenti di
dee nella loro figlia divina. Nel mito sono rimaste innumerevoli
tracce di dee nate per partenogenesi. Non sappiamo se sia solo
un mito. Qualcuna afferma di no. Si tratta comunque di un argomento affascinante e misterioso che il patriarcato ha riletto in
chiave di autentici stupri di sacerdotesse, ninfe, vergini e dee da
parte di divinità maschili invisibili o trasformate.
La lunga storia delle donne necessita di un paziente lavoro di
ricostruzione. Possono aiutarci gli innumerevoli ritrovamenti di
immagini rituali, le cosiddette “veneri”, in realtà rappresentazioni della divinità del femminile. Nell’evoluzione della loro fattura
e delle loro sembianze, ci consegnano tracce innumerevoli della
storia delle donne e del ruolo che esse hanno ricoperto. Una storia che si sta riavvicinando e che ci fa pensare che “si può”.
Questo convegno ha avuto, in ultima analisi, la funzione di
catalizzare esperienze e realtà, seppur diverse, ma orientate
intorno ad un progetto di società alternativo a quello presente.
Questi incontri fanno emergere prepotentemente il bisogno
delle donne di ritrovare la propria identità e il conforto di
incontrarsi come migranti in
un mondo che non ci appartiene. Il tentativo faticoso di
ritrovare un passato dimenticato ma non rimosso. Questi
momenti collettivi lasciano la
consapevolezza gioiosa di
aver ritrovato un tassello
mancante di una gigantesca
rappresentazione e di aver
fatto un altro passo verso la
riappropriazione della nostra
immagine sbiadita, dei contorni che ci definiscono. Resta
sullo sfondo il dolore e la rabbia per essere state espropriate, cancellate, estromesse.
E la constatazione che, al crescere della nostra consapevolezza, corrisponda un sempre più duro, perché più subdolo,
tentativo di ricacciarci indietro.
(Il precedente articolo sugli Studi Matricarcali, a cura della
Associazione Armonie, Bologna, è stato pubblicato sul n. 63 di
NOSTOP, giugno 2009)
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Il buon governo di una città
si misura anche dagli spazi delle donne
Nel corso di questi anni l’associazione
Armonie ha rappresentato per molte
donne della città di Bologna un luogo di
incontro e di scambio di esperienze, oltre
che di produzione di attività, saperi e pratiche. Oggi è un’associazione che conta
più di 230 socie, di età e provenienza
diverse, ha un forte radicamento nel territorio, svolge una funzione culturale ed
educativa, offre servizi e promuove progetti in linea con una tradizione di pensiero e di cultura politica femminili. Abbiamo
coltivato nel tempo relazioni e scambi con
altri gruppi di donne di questa e di altre
città – nella convinzione che la mobilitazione e la condivisione delle risorse del
fare rete siano condizione essenziale di
rafforzamento e di empowerment - nonché buoni rapporti di collaborazione con il
Quartiere e i suoi operatori e servizi.
Armonie è nata sedici anni fa in seguito ad
alcuni casi di stupro perpetrati su donne
nella zona Fossolo del quartiere Savena;
alcune di noi cominciarono a riunirsi e ad
organizzare manifestazioni e fiaccolate.
Facemmo richiesta al quartiere e all’amministrazione comunale di una sede, un luogo
d’incontro per le donne, per rompere il loro
isolamento e con l’intento di movimentare
le strade del quartiere, rendendole più
Ho conosciuto queste donne, attraverso le loro interessanti iniziative. Mi ha colpito l’entusiasmo, la creatività, la competenza con
cui svolgono la loro funzione culturale e sociale. Meritano che sia
data visibilità alla loro lotta. Pubblichiamo il loro appello in segno
di solidarietà. (V.S.)
sicure. Ci fu assegnata una sede in Viale
Lenin, poi nell’ex scuola Rodari; infine, a
Villa Paradiso, attuale sede.
Molte sono le attività che abbiamo svolto
in questi anni: dalle molteplici forme di
sensibilizzazione sui temi della violenza
contro le donne, servizio di accoglienza
telefonica, corsi di difesa personale, interventi di public art per ridisegnare spazi al
femminile, alla promozione di azioni positive e di buone pratiche di cittadinanza,
alla creazione di giardini officinali in scuole e aree condominiali, progetti educativi
nelle scuole, interventi per coinvolgere le
donne straniere residenti nel quartiere,
valorizzando i beni comuni.
Vogliamo ricordare anche i numerosi incontri
con un approccio di genere dedicati alla salute delle donne, alle nuove economie - sviluppo sostenibile, consumo critico e l’attivazione di un gruppo di acquisto solidale. Così
come i convegni sul mito e il culto della
Grande Madre e sugli Studi Matriarcali
moderni, gli incontri sulla riattivazione
della memoria femminile riguardante le
concezioni e le pratiche del sacro, i
laboratori di scrittura, le pubblicazioni,
la sottotitolazione di filmati inediti, il
cineforum, la presentazione di libri, i
corsi di benessere psico-fisico.
Crediamo che il lavoro svolto in questi
anni possa essere riconosciuto come un
vero e proprio servizio di utilità sociale,
di interesse generale, pubblico, e che
non possa andare che a vantaggio delle
amministrazioni e dell’intera comunità.
Tempo, competenze, esperienza, relazioni sociali, partecipazione, responsabilità, buone pratiche sono beni comuni centrali per lo sviluppo della coesione sociale e per i processi di capacitazione individuale e collettiva.
Chi avverte l’esigenza di esprimere
l’esercizio di cittadinanza dentro lo spazio pubblico, contribuendo a qualificarlo
ed ampliarlo, si scontra però con la scarsità di luoghi e mezzi idonei per poter
svolgere adeguatamente quel ruolo.
Infatti, la sede di Armonie è stata messa a
bando e chi lo vincerà dovrà pagare un
affitto annuo di 18.000 euro. Il radicamento sul territorio è sempre stato un nostro
punto di forza, ma nel bando non se ne fa
nemmeno cenno, a differenza di quanto
solitamente è avvenuto per i bandi di assegnazione di altri quartieri. E se anche
l’esito della presentazione dei nostri progetti fosse positivo, non saremmo in grado
di corrispondere quella cifra. Le Armonie
si sono sempre sostenute economicamente
con il tesseramento annuale delle socie
(20 euro), con iniziative di autofinanziamento e donazioni. Alzare il prezzo delle
tessere, in un momento di crisi, significherebbe escludere molte donne e, in ogni
caso, non risolverebbe il problema.
Facciamo appello alla riforma del Titolo V
della Costituzione, comma 4 dell’art.118,
che recita: “Stato, Regioni, Città
Metropolitane, Province e Comuni devono
favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento
di attività d interesse generale in base al
principio di sussidiarietà”.
Speriamo che questo principio, che è
anche fondamentale principio di libertà e
democrazia, sia rispettato.
[email protected]
http://www.women.it/mailman/listinfo/
sociearmonie
ARMONIE ASSOCIAZIONE DI DONNE
È nata nel 1994. È iscritta all’albo comunale delle Libere Forme Associative e a quello
provinciale delle Associazioni di Promozione
Sociale. Tra le sue finalità:· Contrastare il
disagio · Sviluppare azioni per il diritto alla
sicurezza, al benessere e per la tutela della
salute psicofisica · Promuovere l’autodeterminazione · Divulgare la cultura della non
violenza e quella patristica · Promuovere la
conoscenza dei diritti e favorire l’aggregazione. Per tutte le informazioni su iniziative,
convegni, mostre e pubblicazioni:
www.women.armonie.it
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Bergamo Historic Gran Prix
Immagini
I M M A G I N I
di Franco Mammana
“Avete un circuito stradale sublime, superiore a quello tanto rinomato e blasonato di Montecarlo”.
Io non sono mai stato a Montecarlo e non ho elementi per avallare
un’affermazione così perentoria.
Pronunciate però da Tazio Nuvolari, mito eterno e indiscusso della
storia dell’automobilismo sportivo e vincitore della prima edizione
della “Coppa Città di Bergamo” nel lontano 1935, acquistano certamente un peso e una valenza difficili da confutare.
Scenario dell’evento le “Mura Venete”, un imponente baluardo
difensivo fatto erigere nella seconda metà del ‘500 dal Senato della
Repubblica di Venezia per rafforzare il confine del territorio di terraferma della Serenissima di cui Bergamo costituiva il presidio
orientale più estremo ad argine dell’avversato Impero spagnolo che
dominava a Milano.
Un tempo poste a difesa del primitivo cuore politico-amministrativo della città, la “Berghem de sura” sviluppatasi urbanisticamente
su sette colli come Roma, sono oggi un bellissimo percorso ombreggiato da platani e ippocastani che permette di spaziare visivamente sul “nuovo” centro cittadino - la “Berghem de sota” - e la sottostante pianura padana a sud fino ad arrivare alla retrostante
catena delle prealpi orobiche a nord.
Quattro porte d’accesso con l’effige del Leone di S.Marco, cannoniere, spalti, baluardi, muraglioni imponenti e una fitta rete di cuniculi sotterranei le resero una delle più significative fortezze militari all’avanguardia in quei tempi, ma fortunatamente mai utilizzate
per gli scopi bellici per cui erano state concepite. Così, venuto progressivamente meno il loro compito primario, acquisirono fin da
metà ‘800 la loro attuale connotazione civile con la realizzazione al
loro interno del “viale delle mura”e il consolidamento delle preesistenti attività agricole all’esterno – gli Orti di Bergamo - che tuttora conferiscono loro una bellezza paesaggistica unica.
Ma da una storia di possibili conflitti cruenti si passa ad una storia
fatta di competizioni sportive ricche di emozioni, dai colpi di cannone al rombo dei motori: in una Italia dove circolavano solo
240.000 automobili, Bergamo si offre per ospitare la prima gara di
velocità automobilistica su circuito urbano. E’ il 1935, “Balilla” e
“Topolino” sono le prime automobili a diffusione popolare, ma le
Alfa Romeo della scuderia Ferrari, le Maserati, le Bugatti, le
Mercedes sono già le automobili dei sogni.
Circa 3 km di percorso da completare 70 volte per un totale di poco
più di 200 km: le cronache dell’epoca parlano di 20.000 spettatori
“paganti” e oltre 1500 auto parcheggiate un po’ ovunque.
A gareggiare lungo un percorso impegnativo e divertente che alterna curve e rettifili sui quali dare il massimo sfogo alla potenza dei
cavalli-motore, nomi oggi sconosciuti ai più ma miti dell’epoca: il
grande “Nivola”, il mantovano volante Tazio Nuvolari vincitore
della corsa; il suo antagonista di sempre – Achille Varzi – che la leggenda narra abbia corso in incognito; il famoso Carlo Pintacuda,
vincitore di un massacrante Giro d’Italia in tre giorni e tre notti; il
pilota bergamasco Franco Comotti costretto al ritiro per un guasto
meccanico proprio sotto casa sua, e altri pionieri dell’automobilismo sportivo.
Poi quasi settant’anni di silenzio fino al settembre 2004 quando,
grazie all’impegno del pilota bergamasco Simone Tacconi, la rievocazione di quello storico evento ha riportato con cadenza
annuale, sulle antiche Mura Venete, le emozioni di un tempo
(http://www.bergamohistoricgranprix.com).
Ferrari, Porsche, Alfa Romeo, Lotus, Fiat, Jaguar, Maserati,
Bugatti, “semplici” berline, vetture da Gran Premio o da Rally a
coprire un arco temporale tra gli anni Venti e i Settanta: una passerella dove si intrecciano curiosità e innovazioni meccaniche,
soluzioni estetiche e ricerca tecnologica, passato e futuro.
Automobili da leggenda, la cui bellezza e unicità si alterna al
design ora raffinato ora aggressivo dei modelli più moderni e specializzati, sono tornate a sfilare e a sfidarsi con i loro piloti-proprietari opportunamente equipaggiati di vestiario d’epoca, fatto di
caschetti di cuoio, occhialoni “fantozziani”, giubbini di pelle, tute
vintage da meccanico, sotto gli sguardi curiosi, stupiti e affascinati di un pubblico senza età, accorso ancora una volta numeroso a
vedere sfrecciare questi bolidi senza tempo.
Appuntamento, quindi, al prossimo 29 maggio 2011.
E la leggenda continua…
NOSTOP
RESPONSABILE DI REDAZIONE Vittoria SCORDO
GRUPPO DI REDAZIONE Ivan PANZICA Luca STANZIONE
PROGETTO GRAFICO ORIGINARIO Armando Artibio FANFONI - RESTYLING URAKEN Graphix
Redazione NOSTOP Via S. Gregorio 48 - 20124 Milano Tel. 026715838 Fax 0266987098
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Supplemento al n° Settembre/Ottobre 2010 de “Il lavoro nei trasporti” Mensile della FILT-CGIL nazionale Direzione/Amministrazione EDITRICE EDITRASPORTI
Via Morgagni 27 - 00161 Roma Iscritto al n°92/82 del Registro Pubblicazioni periodiche del Trib. di Roma il 10/3/82 Testata registrata presso il Registro Nazionale
della Stampa Direttore Responsabile Marilisa Monaco Sped. in abb. postale c26 art.20 lett. B art.2 della legge 23/12/96 n° 662 Roma
Chiuso in tipografia: 22 settembre 2010 BINE EDITORE - Corso di Porta Vittoria 43, Milano
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Periodico FILT-CGIL Lombardia
Numero 67
HISTORIC GRAND PRIX
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